martedì 23 novembre 2021

TRASCENDENZA COME FILM

 

Trascendenza, iper-trascendenza, individuazione, definizione, il confronto è sempre con la “technè” ovvero chiamala tecnica, chiamala abilità, chiamala arte, dagli un “archè”, uno svolgimento, e ovviamente i relativi mezzi di comunicazione e ti ritrovi sempre con uno strumento tra le mani di cui sei costretto a misurare le implicazioni: il graffite sulla roccia,  la stele, la statua con gli occhi dilatati, il libello, il flauto e la lira, sono tutti mezzi di cui l’umanità si è servita per rapportarsi con il trascendere appunto, un qualcosa che si è sempre imposto come alternativa rispetto ad un organico, un biologico, eh sì, anche un naturale, che con le loro “necessità” relegavano l’umano ad uno stato animale di cui tutti i Miti hanno valutato i tentativi di superamento. Così si comincia a cercare “un principio di tutte le cose”, l’acqua, il fuoco, un non meglio precisato “Apeiron” arzigogolando su frecce che volano e sul “piè veloce Achille che non riesce a superare la sua tartaruga”… “l’uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono” diceva Protagora e certo la misura è importante, se si doveva decidere di mettere sul frontespizio all’Accademia la scritta “qui non si entra se non si è geometra!” Gheos =terra, Metros= misura, misuratore della terra; l’Accademia è quella di Platone l’inventore del “concetto” ovvero “quell’uno che sta per molti” e che pone una netta separazione tra “terra” e “cielo” inaugurando tutti i dualismi dell’occidente, che non hanno la quasi liquida sinuosità del simbolo dello Yin e dello Yang dell’Oriente, ma sono sempre opposti, contrastanti, antitetici, immettendo anche il principio del “valore” il mondo della terra dove l’albero non è l’albero, ma qualcos’altro, qualcosa che potrai ritrovare nella sua essenza solo in un iperuranio, “il mondo delle idee”. Da una parte quindi qualcosa che non vale, dall’altra quello che vale e che costituisce l’essenza, direbbe Kant “la cosa in sé, il noumeno” Ma il criticismo colla sua ragione pura e pratica, col suo giudizio e ovviamente le “categorie” non esaurisce il problema, dato che l’uomo non si è limitato ai giochetti della sua mente, ha anche sempre cercato di mettere, diciamo così, dei paletti al suo rapporto coi mezzi che la “technè” gli ha via via fornito: un costante omaggio a Prometeo il titano che col suo “pensare prima, in anticipo” = pro- methes, la technè, l’ha inaugurata, spezzando la necessità del tempo ciclico, quell’eterno ritorno dell’identico, che il pro-getto quell’ altro tempo, quello del “kairos” che i greci antichi individuavano nel “tempo opportuno”riesce a sottrarre alla necessità. La prospettiva di Brunelleschi, di Alberti, di Rossellino e di tutti gli artisti a seguire, che sono si geometri, ma architetti e anche ingegneri, consente già qualcosa di nuovo, che racchiude quella parolina magica “pro”: pro-gettare, pro-vvedere, pro-tendere…. e il mondo sembra prenderne atto fino ad andare anche alla ricerca dei “lumi” che possano rischiarare il cammino e non farci sentire “soli, sperduti nel buio”“una battaglia e’ perduta, c’è il tempo di vincerne un’altra!” con questa frase, anche la prassi viene immessa nel contendere, si riveste di rutilanti uniformi, si impersona in un singolo, un certo Napoleone Bonaparte, che il filosofo per eccellenza Hegel vedendolo passare esclama “ecco lo spirito del mondo!”. Si ma Spirito è parola che può avere molteplici significati, per cui se per un Kojeve che ne  analizzava il termine in Fenomenologia dello Spirito, era interpretato  nel senso di fine di una storia, in quanto soppressione di ogni tensione (in una certa maniera che può anche ricordare la Pulsione di Morte in Freud) Spirito è anche il fantasma, il revenant, cioè qualcosa che può ripresentarsi in diverse valenze. La nuova Musa, sul finire dell’ottocento, il cinema, fa scorrere, rende mobili le immagini e qualche decennio dopo vi immette anche la parola “signori, aspettate, aspettate un momento: non avete ancora sentito niente!” Poi arriva la televisione, che porta il mondo tra le pareti di casa e quindi l’informatica, il computer, il cellulare con il moltiplicarsi delle possibilità, anche se c’è sempre il pericolo della ridondanza “tutti parlano, ma nessuno ascolta” il “ci” Heideggeriano diventa dominante e il mondo rischia di tornare “quel mondo spaesato del tacere!” da cui si era partiti. il disagio c’è e viene rappresentato, si fa “technè” anche lui : per un Dante Alighieri è una “Commedia” anche se l’epiteto di “Divina” dovrebbe dare una qualche soluzione, Cervantes la riveste dello spettro della follia, i mulini a vento e l’illusione di Dulcinea, per Goethe è il “patto col diavolo” e ci sono le esaltanti melodie di un Mozart, di un Beethoven, di un Bach, ed ancora le melanconiche liriche di un Leopardi, il Mondo come volontà e rappresentazione di Schopenauer, ma sostanzialmente nessuna “Gaia scienza” per Nietzsche. Si arriva a Freud e al suo inconscio come discorso “sempre mancato”, che ha però proprio in tale mancato, la sua riuscita. Inconscio che è sempre “discorso dell’Altro” ed è canonicamente “strutturato come il linguaggio” per Lacan, mentre Mattè Blanco ipotizza per esso “gli insiemi infiniti” e quindi anche il correlarsi alla fisica sub atomica, la teoria dei Quanti, i diavoletti di Maxwell, il gattino di Schrodinger, e tutta la relatività di Einstein e l’indeterminatezza di Heisenberg.Insisto nella mia tesi, che il cinema ha una possibilità in più di esprimere compiutamente tutto l’assunto, anche il disagio, perché è in grado di moltiplicare e condensare ogni aspetto della realtà: la scalinata di Odessa di Esestein in La corazzata Potemkin,  la slitta di Orson Welles in Quarto Potere, la corsa della Magnani in Roma città aperta, la danza notturna con le pietre, attorno alla Giara in Caos dei fratelli Taviani e tante altre sequenze che hanno la particolarità appunto di spostamento e condensazione della realtà (quelle che Freud aveva individuato appunto come precipua manifestazione del sogno, ovvero la “via Regia” dell’inconscio ). Un esempio ulteriore potrebbe essere il movimento della macchina di proiezione con lo schermo che scorre tra le case del paesetto in “Nuovo Cinema Paradiso” di Tornatore e restando a tale autore il recente film “La corrispondenza” dove i più moderni mezzi di comunicazione vengono impiegati per andare “oltre la vita” una sorta di partita a scacchi dove il risultato non è così scontato. Il tema, questo eterno contrasto tra la vita e la morte, è affrontato in termini molto più esasperati, quasi da fantascienza in un recente film che si chiama giustappunto “la Trascendenza” con Jonny Deep e Rebecca Hall, dove è proprio l’on-line, internet, l’informatizzazione generalizzata, a condurre il gioco, e bisogna riconoscere, anche con plausibile possibilità. In effetti, sembra proprio che ne sia passato di tempo, anzi di pellicola, da quando Stanley Kubrick, in “Odissea nello spazio” passava dal monolite alla macchina, il cervello elettronico che prendeva il dominio sull’uomo.

 

venerdì 19 novembre 2021

REVISIONE DI NAPOLEONE (UN ALTRO FILM)

  Questo è un saggetto che mi è stato solleticato dal ritrovamento di un vecchio libro di uno storico italiano Gugliemo Ferrero, non troppo conosciuto in quanto essendo antifascista e esule in vari Paesi, non è stato in Italia oggetto di capillare diffusione e attenzione; diciamo “peccato” perché siamo in presenza di uno storico vero e molto originale, oggetto di grandi riscontri, ma giustappunto non in territorio nazionale, ma nei numerosi Paesi in cui è stato esule (Svizzera, Francia, GranBretagna, Stati Uniti)

 Il libro in questione è del 1936 pubblicato in Svizzera, si chiama "Avventura" e tratta del prepotente ingresso nella storia del giovane generale Napoleone Bonaparte con la campagna d’Italia del 1796/97: la novità e anche, diciamolo, lo sconvolgente sotteso alla trattazione, è l’assunto, che viene trattato in maniera ineccepibile, con tanto di riscontri storici, di fonti e documenti che tale folgorante ascesa non sia stata affatto dovuta a quel genio militare universalmente attribuito al personaggio e neppure a quella sorta di “hoc erat in votis” che trascende i dettami della storia, ma a tutta una serie di circostanze tra il fortuito e il fortunoso, ma anche un tantino al programmato, che fa sì di individuare un contesto preordinato e ben incanalato nei dettami di una precisa strategia sociale. Le verità storiche come quelle scientifiche sono sempre relative e la campagna d’Italia del 1796/97 è stata universalmente considerata dagli storici come innesto della più straordinaria avventura del personaggio che l’aveva condotta, quel personaggio che 10 anni dopo, all’indomani della battaglia di Jena, farà scomodare un filosofo come Hegel sceso in strada per veder passare sul suo immacolato cavallo bianco “lo spirito della storia. E’ da più di due secoli appunto che si racconta che la Campagna d’Italia fu il parto del solo cervello geniale di Bonaparte, e che solo lui avrebbe potuto avviare un simile sconvolgimento, ma analizzando spassionatamente i fatti l’autore perviene alla constatazione che non è affatto così: in effetti, specie nella prima parte della campagna non si ravvede alcuna variazione rispetto al piano studiato dal Direttorio per i compiti dell’Armata - va notato difatti, che all’incirca dalla meta’ dell’anno precedente all’assunzione del comando dell’armata di Bonaparte , il Direttorio in collaborazione con il Comitato Topografico Militare e una serie di giovani Generali, di cui tra l’altro faceva parte il ventiseienne Generale di Divisione Napoleone Bonaparte, aveva elaborato un piano d’azione sia tattico che strategico per la non troppo considerata Armata d’Italia. Sotto il profilo tattico il primo obiettivo doveva essere la città e fortezza di Ceva che doveva essere attaccata da due lati delle forze d’Armata, la prima lungo il Tanaro, la seconda da Savona, per poi proseguire nella direttiva di separare le forze austriache da quelle piemontesi e procedere verso la Lombardia. Le linee strategiche per l’Armata del Piano del Direttorio, però non riposavano in Italia, ma prevedevano l’invasione della Germania attraverso l’Italia, e Napoleone come si e’ detto, faceva parte del gruppo di Generali che aveva ideato tale piano in un periodo in cui non aveva ancora alcuna idea che sarebbe stato proprio lui quello che sarebbe stato incaricato di dargli fattualità. Questo punto è di capitale importanza nel ragionamento che stiamo seguendo : dove è che finisce la storia e dove è che comincia il mito???? perché in effetti siamo in presenza della nascita di un Mito, anzi a tutti gli effetti il più inossidabile mito dell’era moderna, un’era nata appunto come Rivoluzione delle macchine che aveva avuto in precedenza qualche prodromo di personalizzazione ( Federico II di Prussia, qualche musicista, tipo Mozart, Beethoven o filosofo d’eccezione tipo Kant, un artista di spicco) , ma che troverà in questo piccolo insignificante uomo, che in altri periodi, se non avesse incappato in una serie di sconvolgimenti sociali del calibro della Rivoluzione Francese, sarebbe rimasto un oscuro ufficialetto gratificato al massimo del grado di Maggiore. E’ notorio come praticamente tutti, anche coloro che non lo avevano particolarmente amato (il manzoniano “vergin di servo encomio e di codardo oltraggio”) finissero per esaltarlo, appuntandosi anche su particolari non troppo dissimili dal conformarsi delle nuvole ad una apparente madonna in cielo, per uno stuolo di fanatici e suggestionabilissimi religiosi : nel 1840 quando in una giornata invernale nuvolosa e uggiosa fu traslata la salma dell’Imperatore da sant’Elena per essere tumulata nella Chiesa des Invalides, ecco che all’improvviso uno splendente sole sbucò dalle nubi per illuminare il feretro e le ali di folla che l’accompagnavano lungo les Champs Elysees, e simultaneamente si levò dalle folla un grido che squarciò il silenzio …“LE SOLEIL D’AUSTERLIZ !!!!!” e come d’incanto ritornare la magia dell’Impero, dei bollettini delle battaglie, i gagliardetti, le insegne, le fiammanti uniformi della Vecchia Guardia. Per spiegare tutto questo, cogliendolo proprio dal suo inizio, l’autore del libro “Avventura” Ferrero, parla appunto di un non meglio precisato “spirito di avventura” una sorta di smania che fa da correlato nel genere umano specie da quando il suo baricentro si è spostato dall’interno di se’ stesso ad un qualcosa di esterno: la macchina: il prodotto della cosidetta rivoluzione industriale : e’ un smania che sostituisce la ripetitività , la routine, cui lo spostamento di indice referenziale appunto dall’interno all’esterno di se’, in una protesi di tutte le sue capacità, della sua stessa essenza spinge l’umanità, da una parte con impazienza, ma dall’altra con riluttanza, a uscire dal momento presente, per andare a cercare qualcos’altro in un altro tempo in un altro spazio, che appartiene non più alla realtà, ma all’immaginazione; non è un tempo presente, ma non è neppure un tempo passato, ne’ tanto meno un tempo futuro in una semplice modalità desiderante: è un altro tempo, non semplice, ma composto e molto più complesso, un tempo che può trovare applicazione in un mondo matematico di perlomeno cent’anni antecedente alla Rivoluzione Industriale, che due grandi studiosi avocarono a loro ideazione : il calcolo infinitesimale: ovvero andare a definire quel particolare “punto/momento/emozione” in cui uno stato si trasforma in flusso, un cambiamento che compatibilmente al suo far parte di tutto l’insieme dei numeri complessi, ne comporta anche l’impiego del sottoinsieme dei numeri immaginari, ovvero proiezioni di numeri negativi. Lo spazio/tempo e flusso ecco che diviene quel “sarà stato “ ovvero una modalità trascorsa e nel contempo “ri-assunta”, per dar luogo ad un avvenire, che farà leva sugli immaginari, tutti gli immaginari possibili, dove la realtà si piega alla fantasia e anche alla manipolazione, abbisognando non solo del calcolo infinitesimale e di tutto l’insieme dei numeri complessi, ma altresi’ della capacità di persuasione della nuova grande arma della Rivoluzione Industriale : la stampa! ovvero i mezzi di informazione, tutto quello che più tardi verrà denominato “Mass media” La tesi del libro di Ferrero che assume un che di inquietante nella correlazione con quanto sta accadendo oggi, non nomina il calcolo infinitesimale, né le derivate complesse che impiegano anche numeri immaginari, ovvero proiezioni di negativi -1, -2, -3, -n, con i quali si intende quella mancanza, debito, carenza , etc, che proprio grazie alla proiezione assolve ad una funzione di compensazione più che verosimile, così come non nomina la fondamentale differenza tra Liebniz e Newton proprio su tale calcolo infinitesimale, laddove per il primo i fenomeni e la stessa essenza umana erano ascrivibili ad una una sorta di “forza viva” (vis viva ) che ha più a che fare con la reazione e in qualche modo il tentativo di padroneggiare il cambiamento epocale dell’introduzione della macchina, da parte dell’uomo e ingenererà quella reazione alla massificazione rappresentata dall’Illuminismo, mentre il secondo, che era più fisico e meno filosofo, tendeva a stabilire relazioni di grandezza e velocità tra uno o più punti, che lui chiamava flussioni, e dal cui calcolo, di tali “flussioni” che poi vennero chiamate “derivate”. Si può prendere l’antefatto della piena riuscita di quel cambiamento di soggetto referenziale di essenza del mondo, che la Rivoluzione Industriale realizzerà tra uomo e macchina, ovvero si tratta a ben vedere per entrambi di maneggiare un infinito potenziale, ma per ognuno dei due ecco che si prestava a individuare un potenziale infinito interno o un potenziale infinito esterno, ognuno con una sua particolare inclinazione e che in correlazione coi grossi cambiamenti che la Rivoluzione Industriale stava ingenerando, produrrà immediatamente degli effetti di significazione : da una parte quella di Leibniz, che è come si è fatto cenno, può ascrivervi tutto il movimento filosofico dell’Illuminismo (il secolo dei lumi) dall’altra quella di Newton che rappresenta invece quel meccanicismo che riuscirà compiutamente a trasferire l’indice di riferimento generale di essere al mondo dall’uomo alla macchina, ovvero dall’interno di sé, all’esterno di se’. Ora come è noto, la storia scientifica ha deciso a favore del secondo , superando con relativa facilità la stimolante idea dell’Illuminismo, eppure intorno all'inizio del XX secolo cioè piu' di trecento anni dopo, la teoria della relatività di Einstein afferma che in ogni oggetto materiale c'è una energia intrinseca che dipende dalla sua massa e dal quadrato della velocita' della luce, la celeberrima formula E = mc2…. sembrerebbe quindi che Leibniz abbia intuito e prefigurato la teoria della relatività, con la sua "vis viva" alla quale aveva dato un indice mv2, ovvero massa per il quadrato della velocità identificandola appunto come energia vitale comune a tutti i corpi materiali e spirituali ; e non è solo Einstein che Liebniz con questa sua intuizione di forza univoca di spirito e materia, appunto questa vis viva, ha anticipato, ma tutte le formulazione della Fisica Quantistica, da Maxwell a Bohr a Heisenberg , Scrhodinger , Bell, Dirac , Feynman etc. introducendo quindi nella fisica teoretica un qualcosa che mai e poi mai sarebbe stato concepibile con Newton, ovvero che la psiche umana, non solo la coscienza ma anche un inconscio, si proprio quello scoperto per indizi di significazione da Freud, abbia una parte fondamentale nella comprensione delle problematiche relative all'osservazione dei fenomeni quantistici stabilendo una interazione tra chi osserva e ciò che viene osservato. Qual è la tesi del presente scritto, dedotta dal saggio citato ? Che gli storici, o meglio i cronachisti francesi di quel biennio 1796/97 abbiano di proposito utilizzato il calcolo infinitesimale di Leibniz, con tanto di derivate costituite da numeri immaginari (nel senso di proiezioni di numeri negativi ) integrando quella liebniziana “Vis viva” con il generico “spirito di avventura” che l’autore del saggio poneva a generico e irrazionale motore del movimento e cambiamento dei concreti eventi e fatti reali? Quasi casualmente o perlomeno sul concorso di varie circostanze fortuite, questo tipo di calcolo tra il reale e l’immaginario, si sarebbe andato appuntando su di un singolo personaggio, neppure troppo dissimile da altri: un giovane generale, quando la giovane età era più una norma che un’eccezione tra i quadri militari venuti a formarsi con la rivoluzione, con al suo attivo un’efficace operazione di polizia(la repressione di una insurrezione realista alla Chiesa di san Rocco), e la fama di essere abbastanza esperto di movimenti di artiglieria (4 anni prima nella presa di Tolone e del forte dell’Eguilette), ma sopratutto la riconoscenza di uno dei più influenti membri del Direttorio Paul Barras del quale sposandone la ingombrante amante Josephine De Beauharnais gli aveva tolto una enorme preoccupazione e ne aveva avuto, da questi proprio il giorno del matrimonio 2 marzo 1796, un eccezionale regalo di nozze: il comando dell’Armee’ d’Italie. Ora francamente non ce li vedo i compilatori delle cronache rivoluzionarie nelle vesti di “piccoli Leibniz”, ma il punto è che determinate scoperte finiscono per entrare nelle menti delle persone, così del tutto impercettibilmente, e anche i più astrusi ragionamenti matematici finiscono per entrare a far parte delle sensibilità delle genti; così quella generica sostituzione di paradigma referenziale tra l’uomo e la macchina che aveva già prodotto la reazione intellettuale dell’illuminismo e quella della violenza sanguinaria della rivoluzione francese, andava sempre più abbisognando di una razionalizzazione che chiedeva urgentemente un salto di fantasia, non più per un intero collettivo, ma per un singolo che potesse rappresentare l’esigenza di novità forzando i dettami di una realtà che abbisognava che si conformasse a parametri di eccezionalità, di quasi totale contrasto tra reale e immaginario. Proprio come una macchina, i cui pezzi si possono cambiare, sostituire, riassemblare, anche l’uomo, questo Homo novus non più rappresentante della sua essenza, ma di volta in volta espropriato a favore di una sua continua riproposizione, deve conformarsi alle stesse esigenze ed è parimenti importantissimo, anzi fondamentale, che tali peculiarità vengano rese ben evidenti, palesate, continuamente, ostentate: nasce dall’immaginario, la pubblicità dell’uomo e della sua azione, del tutto simile a quella di un qualsiasi altro prodotto : l’uomo diventa equiparabile non solo ad una macchina, ma anche ad una merce. Tutto si costruisce, tutto si cambia, tutto si vende e tutto si compra. Napoleone Bonaparte è in tal senso una sorta di prototipo: le sue peculiarità sono da manuale: piuttosto oscuro, venuto dal nulla, poca distinzione, persino un fisico non aitante , di bassa statura, e caratterialità ombrosa, di converso però una fortissima disponibilità al compromesso, ambizione sfrenata, pochi scrupoli, nessuna preoccupazione del futuro, ma tutto orientato al successo immediato, ecco la quintessenza di quel che serve in tempi come quello di post rivoluzione per porre una fine costruita, diremmo oggi virtuale e non reale ad un qualcosa che deve essere ricondotta nei dettami della normale produzione. Nasce la pubblicità e nasce altresì la spettacolarizzazione di un evento che l’uomo deve interpretare come un attore interpreta una parte ed ecco difatti che con la Rivoluzione industriale cominciano a delinearsi oltre questa figura, diciamo così incanalante, anche tutta una serie di altre figure che lo sostengano : scrittori, giornalisti, biografi, estimatori, ma anche oppositori e critici, e vere e proprie entità, tipo i cosidetti mass media. Benvenuti nella nostra era moderna e benvenuti anche in quest’era contemporanea che però con l’esasperazione di alcuni suoi meccanismi ha portato al parossismo il meccanismo del calcolo infinitesimale di Leibniz , dove non possiamo più parlare di “vis viva” ma di totale controllo da parte delle classi dominanti e quindi un reiterato attacco alla Libertà individuale , attacco che avrà di volta in volta le peculiarità di maggiore controllo delle masse attraverso il meccanismo della falsificazione e della mistificazione e vieppiù quello di un continuo stato di paura, cui la stragrande maggioranza delle masse va mantenuta : paura che un tempo poteva essere mantenuta con un impianto di punizione divina, ma che ora abbisogna di un qualcosa di più riscontrabile anche se con i medesimi meccanismi di astrazione e di definizione : uno stato di salute continuamente compromesso dall’emergere di quel fantasma della malattia e del contagio cui solo l’affidamento ad un qualcuno che si avoca la responsabilità di gestirlo ne potrà assicurare la cura e la guarigione; ne sono manifestazioni : l’eccessivo scollo tra realtà e immaginazione, un consumismo sfrenato con mercimonio dilagante, personaggi sempre più mediocri che cercano di avocarsi le caratteristiche che un tempo erano peculiarità di uno solo o pochissimi, democratizzazione delle derivate immaginarie, tentativi di superamento del confine tra reale e immaginario con fini di asservimento della maggioranza della popolazione ai dettami di pochissimi, come stiamo in questo preciso momento subendo (2020) e i cui tratti ispiratori non riposano nella realtà, ma nella letteratura fantascientifica di tipo apocalittico alla Orwell, alla Huxley,alla Breadbury .


E’ sul principio del “recitare una parte” che è importante realizzare la ricostruzione tutta virtuale di un personaggio fuori le righe, costruito a bella posta con tratti quasi sovraumani, ma opportunamente scelto dalla compagine meno rappresentativa della Società, sicchè ognuno nel suo uniformarsi a questi ne avrà per così dire quasi un ritorno in termini di possibilità : una democratizzazione dell’eccezione , i 5 minuti di celebrità di cui tutti secondo Andy Wharol hanno diritto, in questa nostra era di ipercapitalismo, di sfrenato consumismo, dove all’era delle macchine è subentrata l’era delle macchine informatiche e digitali; non più il braccio, le mani, il corpo, la fatica fisica, ma lo stesso pensiero umano, la mente, divengono l’oggetto dell’espropriazione. L’operazione ha una origine, una prima volta e seguiamo lo storico Guglielmo Ferrero che ci fa appropinquare a quel marzo 1796 in cui il Generale Napoleone Bonaparte, con quel po’ po’ di regalo di nozze del comando dell’Armata di Italia, giunge alla tenda del comando a Nizza , ricevuto dai tre generali che fino a quel momento si erano divisi il comando delle operazioni , tre generali di molta più esperienza della sua : il savoiardo Andrè Massena 43 anni ex sottufficiale dell’esercito savoiardo , alto aitante, volitivo, salito velocemente di ruolo e di grado con la rivoluzione e all’attivo parecchi fatti d’arme che lo gratificavano già allora dell’epiteto di “Invincible”, il Gen Charles Pierre Augereaux 39 anni di Parigi nato nella popolare strada di rue Mouffetard a Parigi, ex soldato ed ex disertore per aver ucciso in duello un ufficiale, soldato di ventura di vari Regni, tra cui anche quello dei Borboni napoletani, era ritornato a Parigi durante a Rivoluzione e si era arruolato come Sergente nella Guardia Nazionale per poi salire velocemente i gradi di ufficiale dell’esercito nella repressione della rivolta della Vandea e venir nominato Generale a 36 anni, il Gen. Jean Mathieu Philibert Serurier 54 anni , l’unico proveniente da una regolare carriera militare di ufficiale, essendo di provenienza dalla piccola nobiltà: aveva partecipato alla guerra dei 7 anni e a campagne in Hannover e Portogallo, oltre ad aver preso parte ad operazioni contro Pasquale Poli in Corsica, l’idolo di gioventù di Napoleone; all’inizio della Rivoluzione aveva il grado di Maggiore e nel ‘93 veniva promosso Generale: piu’ che un combattente indomito e di pronta azione come i suoi due precedenti colleghi era per il suo stesso curriculum, diciamo così “tradizionale” , uno dei maggiori esperti della teoria di Guibert un ufficiale che non aveva fatto a tempo a veder applicate le sue concezioni su di un nuovo modo di condurre le guerre essendo morto nel 1790 a 47 anni, ma che un certo scalpore aveva ingenerato in tutti i comandanti ante rivoluzione con un suo libello del 1773 titolato “Saggio generale di tattica” laddove opponeva la snellezza e la velocità delle armate alla loro massa e quindi penalizzava la formazione di carriaggi, salmerie, magazzini, a favore dell’adozione di reparti agili, mobilissimi e soprattutto che traessero dai territori da loro via via occupati, gli elementi del loro sostentamento, un po’ come le famose compagnie di ventura dei secoli addietro, facendo insomma ritorno al principio della razzia. Va notato che queste idee furono già all’epoca della pubblicazione del saggio prese nella dovuta considerazione : Caterina di Russia invio’ il trentenne autore del saggio in Russia e Federico il Grande volle conoscerlo personalmente.Doveva essere però quello spirito innovativo della Rivoluzione Francese a ispirarsi massimamente ai principi della teoria di Guibert, quello spirito cominciato a realizzarsi con la famosa “cannonata di Valmy” di appena due anni posteriore alla morte dell’autore e giustappunto Serurier era in quanto ufficiale regolare, uno dei più esperti ed entusiasti seguaci di tali teorie , cosa questa, come vedremo fin dagli inizi della campagna d’Italia, che tornerà utilissima al giovane generale Bonaparte che in tal senso e, in questo si rivelererà il classico allievo destinato a superare, e di molto, il maestro. Tutti e tre i generali che il Direttorio gli aveva apparecchiato come subalterni erano come si vede dalla esamina delle loro caratteristiche, di gran lunga più esperti e avevano molti più titoli e capacità del giovane Generale Corso e difatti lo avevano accolto non propriamente con rispetto, voltandogli sprezzantemente le spalle, o perlomeno questo è quel che è passato alla storia e che viene riportato in un film che per molti versi rappresenta una specie di inverazione filmica del processo di creazione del personaggio: NAPOLEON : in tale film difatti molte delle scene paradigmatiche che avevano costruito il mito del generale Nessuno divenuto il generale Meraviglia, sono riportate fedelmente; fedelmente si, ma non alla realtà, bensi’ a quell’immaginario con il quale si sarebbe dato inizio al Mito, non ultima questa scena appunto dell’ingresso del giovane generale nella tenda comando con i tre sopracitati generali ripresi appunto di spalle.Cosa succede? ecco che si vede Bonaparte scaraventare la sciabola sul tavolo costringendo i sottoposti a voltarsi e quindi fissarli , uno alla volta diritto negli occhi, fino a imporgli di levarsi il cappello. Siamo nella quintessenza di quando un film che dovrebbe interpretare la storia si fa esso stesso storia: Napoleon di Abel Gance che doveva consegnare alla Settima Arte la ratifica di un Mito così come era pervenuto da quel meccanismo di esaltazione messo in evidenza dallo storico Guglielmo Ferrero, è forse il film più mancato della storia del cinema, difatti, essendo tale film del 1927, la diffusione del sonoro ne bruciò il colossale potenziale di successo e diffusione: forse proprio a causa di questo mancato, in una sua riproposizione dopo oltre mezzo secolo con uno scenario di ambientazione quanto mai caricato da un triplo schermo a Massenzio, in piena atmosfera di quell’Estate Romana voluta dal sindaco Argan e dell’Assessore, nonchè mio amico personale, Renato Nicolini che mi aveva convocato, conoscendo la mia passione e discreta competenza di cinema, per chiedere un parere su cosa ne pensassi di quel film; io capirai con la mia sempiterna cultura per il “mancato” mi ero prodotto in un vero e proprio panegirico, tanto più che c’era la concretissima possibilità che venisse a presenziare lo stesso regista Abel Gance, oramai novantenne, che per come erano andate le cose su quel capolavoro per differita, si collocava in pieno in tale spirito. In effetti quel film, Napoleon aveva tutte le peculiarità di quel grande mancato di cui spesso, opere, persone, eventi, addirittura città e civiltà, sembrano venire intessuti. Realizzato con grandissimi mezzi intorno al 1927, doveva oscurare tutti i grandi colossal usciti fino ad allora, era però apparso sugli schermi proprio quando la provocante voce di Al Johnson disse la famosa frase “Signori non avete ancora sentito nulla!”. Lo disse Groucho Marx “un film è assai meglio della realtà” , così era anche quel film, per concezione, ampiezza di vedute, tecnica cinematografia con dissolvenze incrociate, carrellate fantasmagoriche, effetti di fotografia, uso di viraggi in relazione alle scene.. “pensa” avevo detto a Renato Nicolini “ che non è affatto vero che Exstasi con Hedy Lamar è stato il primo film dove si vede un seno nudo di donna, nella grande festa del ballo per la fine del “terrore” di Robespierre e Sain-Just, c’è una scena di ballerine che danzano tutte allegramente a busto scoperto. Ora Abel Gance novantenne era lì in prima fila, nelle poltrone di Massenzio, omaggiato da tutte le autorità e anche dal sottoscritto, che era in fibrillazione nello stringere la mano ad un simile “campione” del mancato, questa volta non tanto alla storia, quanto allo spettacolo, ma, che questa volta, la realtà gli aveva dato la sua rivincita. L’entusiasmo del pubblico alla rappresentazione, i tre schermi con i riflettori che sul finale dividevano la luce nei colori della bandiera francese, manco a dirlo con la musica della “Marseillese”, furono qualcosa di epocale, in quella splendida notte romana.
Lo vedi che strano, la realtà a volte concede qualche rivincita, ho detto sempre che forse noi sulle generali viviamo un po’ troppo e che per lo più siamo destinati ad essere superati dalle cose del mondo, ma di certo il vecchio Abel Gance quella sera non sarebbe stato del mio stesso avviso, glielo si leggeva negli occhi di vegliardo, dove si intravedeva il lampo dell’orgoglio di aver fatto un qualcosa che, d’accordo , il botteghino e quindi lo spettacolo in genere, aveva condannato come fallimento, ma non all’oblio. Lo ripeto fino a pochissimo tempo fa nessuno mi avrebbe convinto del contrario, il film che in quel fantasmagorico scenario ci incollò tutti a fronte di quel triplice schermo, ove come un fantasma aleggiava in una sorta di dissolvenza tra realtà e immaginario la veneranda figura de suo autore, in poltrona d’onore lì nella rappresentazione, ma anche ben dentro l’immagine filmica nella accattivante parte che si era scelto del terribile “angelo della morte”Louis Antoine de Saint Just. . L’attore che impersonava Napoleone nel film, Albert Dieudonnè era perfetto nella parte, si ma quale parte? quella che la storia ha voluto tramandarci, ma non certo quella che la realtà dove un ubbidientissimo giovane generale praticamente con un quasi nullo curriculum si accingeva goffo ed impacciato a recitare appunto la parte di esecutore di un piano che aveva ben altri ideatori e di certo del tutto inconsapevole di quello che un melange di caso, necessità, piaggeria e anche fortuna gli stava apparecchiando, e che magari qualcuno avrebbe chiamato storia; a pensarci bene è sempre un pò così! non è forse vero che siamo sempre costantemente superati dagli eventi che dobbiamo vivere?, la nostra stessa struttura anatomica è congegnata di tal fatta, abbiamo gambe per camminare e alla bisogna, correre, verso dove? verso qualcosa, braccia per cogliere…mani per afferrare e un cervello per pensare…prima: pro-tendersi, pro-gettare, pro-porre…. tutto quel benedetto “pro” che guarda un pò è giusto il prefisso del nome di quello che ci ha fatto questo regalino: il mitico Prometeo, dove quel “pro” è unito alla forma “methes” del verbo “mantano” = io penso: e quindi Prometeo è “colui che pensa prima”, in anticipo, proprio come cerchiamo di fare noi. Eh già, ma su cosa è fondato tutto questo “pro”? su di un furto! un furto agli dei, che permalosi come sono non l’hanno presa per niente bene, e a parte i risvolti più o meno truculenti verso l’autore di quel furto (roccia del Caucaso, catene, aquila che rode il fegato) e anche verso di noi (il taglio che separa l’essere umano, prima “amphiteroi in due parti distinte (dia-boliche) blandamente spinte dal dio Eros alla ricongiunzione (simbolica), hanno fatto in maniera che noi fossimo appunto costantemente superati dalle cose che desideriamo; per questo forse i latini hanno coniato la parola desiderio (de sidera) ovvero essere intorno, dalle parti, nei pressi, nei paraggi di dove dimorano le stelle che non sono affatto fisse, anzi per il solo dato di presentarsi alla nostra vista, esse debbono essere già estinte da milioni di anni.
Paradossale dunque che il vecchio Abel Gance abbia avuto il suo “successo” cinquanta e passa anni dopo, ma anche paradossale che noi comuni mortali siamo sempre lì a combattere con le cose del mondo e l’unico modo per impadronircene veramente è forse quello del ri-assumerle, non nella realtà , ma in una sorta di immaginario, dove, come la riedizione di Napoleon a Massenzio, quello che conta, non è come siano andate veramente le cose, ma come le reinterpretiamo noi, come ri-mettiamo il tutto insieme , ovvero con una operazione “simbolica” Ordunque a parte le scene della tenda con la sciabola sbattuta sul tavolo e probabilmente anche il famoso discorso , ben illustrato nel film, che il nuovo Generale tenne alle truppe “ soldati siete laceri e malnutriti. Il governo vi deve molto, e non può darvi niente. La vostra pazienza, il coraggio che mostrate in mezzo a queste rocce, sono ammirevoli, ma non vi daranno la gloria …. Io voglio condurvi nelle più fertili pianure del mondo. Ricche province, grandi città saranno in vostro potere. Vi troverete onore, gloria e ricchezze. Soldati d’Italia, mancherete dunque di coraggio e determinazione?», cosa fa il nuovo Generale appena arrivato? esegue alla lettera il Piano che il Direttorio aveva ricalcato sulle Memoire de l’armeè D’Italie, redatto l’anno precedente, dal gruppo di giovani generali di cui anche lui aveva fatto parte, uno dei tanti, non certamente il più importante , soprattutto non quello che sarebbe stato destinato a eseguirlo. e Napoleone esegue alla lettera le disposizioni , fissa il suo Quartier Generale d Albenga ed comincia col volgere la sua attenzione a Ceva, primo obiettivo posto appunto dal Piano e la riprova è data dal suo recarsi il 9 aprile 1796 nella Valle del Tanaro per parlare con Serurier che comandava quel settore, neppure prendendo in considerazione una offensiva dalla parte di Montenotte, dove si badi bene sarà trascinato a reagire non operando da attaccante, ma da attaccato: attaccato dall’ala sinistra dell’esercito austriaco che riusciva a sorprendere i francesi conseguendo alcuni vantaggi territoriali in direzione del colle di Cadibona e Savona: così crolla uno dei miti più inossidabile della aurea napoleonica: che lui sia arrivato e paffete come d’incanto successi a ripetizione : Dego, Millesimo, Cairo Montenotte. In verità furono gli Austriaci a dare inizio alla Campagna d’Italia in quell’aprile 1796 e le controffensive che portarono alla vittoria di Cairo Montenotte il 12 di aprile, furono merito non tanto di Bonaparte quanto dei Generali Massena e Leharpe che erano accorsi prontamente. Altro particolare spesso sorvolato dagli storici, specie quelli meno approfonditi e anche il nostro famoso film Napoleon, (che su queste prima battaglie della campagna d’Italia, chiude la sua visione, facendo aleggiare sullo schermo tricolore, lì a Massenzio, un’aquila volteggiante a simbolo della gloria , lasciando intendere di voler continuare la narrazione in una parte successiva) , fu che subito dopo la vittoria di Cairo Montenotte, Napoleone ritornò al piano originario del Direttorio, ovvero l’attacco di Ceva e quindi lasciò lo scontro cogli austriaci per preferenziare quello coi Piemontesi, fu addirittura ipotizzato che Bonaparte disubbidì al Direttorio nel non continuare lo scontro verso gli austriaci, ma è una di quelle, diremmo oggi “fake news”, da manuale : il Direttorio non aveva mai ordinato a Bonaparte di inseguire gli Austriaci ed anzi aveva tassativamente ordinato di non fare alcun movimento se non prima di aver occupato Ceva. Nei giorni seguenti Napoleone operò contro i due eserciti, quello austriaco che era stato sconfitto a Cairo Montenotte e quello piemontese che presidiava Ceva e la valle del Tanaro, su più direzioni; nei combattimenti un po’ altalenanti di Dego, Millesimo, dove alla fine i francesi finirono per avere la meglio e solo quando fu tranquillo rispetto agli austriaci, il 16 aprile si girò verso Ceva prendendola d’assalto, ma venendo sanguinosamente respinto . Ora va sottolineato come tale ultima operazione, appunto l’occupazione della fortezza di Ceva, ha sempre fatto storcere il naso agli storici, specie quelli agiografici di Napoleone: difatti attaccare di petto un campo trincerato, anche se era espressamente e tassativamente stabilito dal Piano del Direttorio, non è propriamente una di quelle azioni che un buon generale, figuriamoci Napoleone, farebbe mai, per cui tutti si sono chiesti come sarebbero andate le cose, se il giorno seguente Colli il comandante in capo dell’esercito piemontese avesse difeso la citta’? Cosa aveva portato Colli ad abbandonare il campo trincerato ed evacuare a cittadina lasciandovi solo una piccola guarnigione che sarebbe capitolata pochi giorni dopo, facendo di fatto i francesi padroni del campo senza ferire??? Ecco qui si entra in un campo appunto dove storia e fortuna si confondono, ma anche lasciano uno spiraglio di “altra” eventualità che forse risente di fattori che nessun piano precostituito può prevedere. Fortunissima ovviamente per il giovane Generale che si trova questo inaspettato regalo e per la prima volta era andato parzialmente contro le direttive di Parigi non rimanendo a Ceva, ma inseguendo il nemico. Il punto è che alcuni documenti ritrovati anni dopo, mostrano che le direttive del Piano del Direttorio non erano poi così assolute, si legge difatti in una di queste “Istruttorie”: “ il Direttorio lascia al Generale in capo la libertà di dirigere le operazioni sia che ottenga vittoria completa, sia che il nemico si ritiri verso Torino e l’autorizza a dar ancora battaglia, fino a bombardare la capitale, se le circostanze rendessero questa azione necessaria “. Come dice giustamente Ferrero si ravvede il linguaggio ovattato del Direttorio, ovvero non ordinare mai, non imporre alcunché, ma sempre proporre, suggerire, consigliare, spingere cioè il generale ad ardire, ma senza forzarlo si dal non rimanere coinvolto in una sconfitta, sconfitta che 2 giorni dopo il 19 aprile doveva puntualmente arrivare in una forte posizione che proteggeva la ritirata delle truppe di Colli, quella di San Michele; nessuno, o quasi, ha mai sentito nominare questa battuta d’arresto nella trionfale marcia dell’Armeè d’Italie e del suo giovane generale, che pure fu addirittura più grave di quella di Ceva, tanto da costringere il Bonaparte a convocare il Consiglio di guerra. Però a questo punto, la riesamina dei fatti puramente militari: vittorie, sconfitte, assalti, inseguimenti , battute d’arresto, deve caricarsi di qualche altra valenza ed andare un po’ più a fondo di quella generica indicazione di fortuna che starebbe lì a fare da rimpiattino tra caso e necessità. Come mai Colli comandante dell’esercito piemontese si comportò in maniera così contraddittoria: respinge il nemico, lo vince addirittura, ma non ne approfitta, anzi si ritira, abbandona campi trincerati e però si assicura la ritirata sempre rintuzzando gli attacchi, come successe ancora il 21 aprile a Mondovì vicinissimo Torino; d’accordo questa volta le cose andarono un po’ meglio pei Francesi, ma questo non impedi’ comunque a Colli e all’esercito di raggiungere Cherasco il 24, giusto ove dopo velocissimi preliminari, il 28 aprile la corte sabauda di Torino, avviava i preliminari di un armistizio per negoziare una pace separata con la Francia, il tutto con l’esercito austriaco appena a due giorni di marcia da tale cittadina. Cosa c’è dietro questo contraddittorio comportamento dei Piemontesi, del suo esercito e generale in capo, e del suo Re? Ripetiamo che gli storici specie quelli di marca napoleonica, quelli che come il nostro regista Gance, hanno contribuito a diffondere il mito del generale infallibile, vero grande genio sia tattico che strategico, l’unico dell’era moderna paragonabile ad un Cesare, ad un Mario, ad uno Scipione, ad un Alessandro, sono sempre stati particolarmente imbarazzati nel descrivere le fasi di questa improvvisa richiesta di armistizio da parte del Regno di Sardegna ad una Francia la cui Armata non ne aveva mai seriamente impegnato le sue truppe: Colli non era mai stato battuto in campo aperto, il suo esercito non era affatto disfatto e neppure era stanchissimo come i manuali di storia oramai riportano con quasi litania; anzi se vogliamo essere franchi, erano i francesi ad essere molto più stanchi. Si deduce quindi che la Corte di Torino non chiese la pace perché non poteva, ma semplicemente perché non voleva più, combattere. Politica non strategia. In verità se si va un po’ più sul profondo si evince che quell’alleanza con l’Austria al Regno di Sardegna non era andata mai giù, fin dalla sua stipulazione nel dicembre 1795: i motivi che l’avevano indotta erano sul proseguo della coalizione contro la Francia rivoluzionaria che giustappunto in quel periodo era in procinto di attaccare in Italia con la sua Armata apposita, anche se in verità con un compito di solo passaggio per prendere alle spalle la Germania e congiungersi colle truppe impegnate sul grande fronte austro-tedesco, che erano sotto il comando del Gen. Moreau un Generale di grande esperienza e con un notevole curriculum di battaglie e vittorie, non certo uno sconosciuto novellino come Bonaparte. L’arrivo in Piemonte di un contigente austriaco di 10.000 uomini comandate dal Gen Banlieu era stato quindi visto a Torino come un protezione dalle mire francesi, ma quando questi aveva attaccato appena pochi giorni dopo l’arrivo del nuovo comandante appunto il Gen.Bonaparte, (ecco una cosa che troppo spesso non viene sottolineata adeguatamente: non fu Napoleone a iniziare la campagna d’Italia, sul proseguo, magari del famoso discorso alle truppe del “siete laceri e mal nutriti” ma furono gli Austriaci, Austriaci che col loro Generale Banlieu, dopo una serie di scaramucce di poca importanza, furono duramente battuti “a Cairo Montenotte, come abbiamo visto, più dal Gen. Massena e dal suo diretto sottoposo gen Leharpe che da Bonaparte in persona. Ebbene dopo questa battaglia, la fiducia nell’alleato era decisamente crollata alla Corte di Torino, tanto da dare disposizioni a Colli il comandante dell’esercito savoiardo di non difendere Ceva e intraprendere piuttosto una ritirata strategica per riportare le truppe verso Cherasco, dove la diplomazia stava già ordendo un armistizio separato con la Francia. Una sola battaglia di una certa entità persa dall’alleato e una ritirata strategica effettuata peraltro magistralmente dal Gen.Colli, tanto erano bastati al Piemonte per chiedere un armistizio e di fatto ritirarsi dalla guerra. Detto per inciso va a anche rilevato che il Bonaparte per inseguire l’esercito nemico aveva allungato enormemente le sue potenzialità logistiche (riserve, magazzini, salmerie, vettovagliamento, etc) e quindi l’Armata era davvero in condizioni miserevoli, molto molto di più dei Piemontesi; ma qui ecco, siamo in presenza di quell’ineffabile della storia che è la fortuna o forse non si tratta precisamente di fortuna, laddove anche essa a ben guardare ha sempre una struttura, magari di manipolazione o comunque di costruzione di una parte come a teatro : fortuna che Colli non contrattaccasse e fortuna anche che Banlieu non approfittasse dello stato dell’Armata francese per scagliarvisi contro con tutto il suo esercito. Ma siamo proprio sicuri che si tratta di fortuna che si può più o meno afferrarla e coglierla, così come indicavano i greci antichi introducendo nella congerie degli eventi umani la figura del “Kairòs”, che tradotto suona un po’ come “il tempo opportuno “ correlandovi la figura del tiro con l’arco e il raggiungimento del bersaglio da parte della freccia, oppure siamo in presenza di una struttura un tantino più maliziosa, molto simile a quella che si utilizza mettendo in scena uno spettacolo teatrale, ognuno con la sua parte prestabilita e scevra di eccezioni nel copione scritto? Possiamo dire che probabilmente il Generale Bonaparte mostrò fin dalle prime fasi della campagna d’Italia una delle sue innegabili doti: recitare una parte, entrarvi dentro e comportarsi di conseguenza, senza mai forzarne i dettami, ma anzi assolvendo detta parte fino alla piaggeria, senza colpi di testa o altro che avrebbero potuto compromettere la sua posizione nei riguardi del Direttorio il potere di Parigi… va sottolineato un aspetto invero fondamentale: se Massena e altri generali “operativi” più arditi e più determinati gli avevano per così dire “salvato il…..” in operazioni di squisito carattere militare, sarà il terzo dei generali immediatamente subalterni quel Jean Mathieu Philibert Sérurier a fornirgli il destro (teorico) per far breccia sull’interesse del Direttorio : la teoria del “Saggio” di Guibert. E’ proprio dalla teoria di Guibert di cui, come abbiamo fatto cenno, Serurier era probabilmente il più grande esperto dell’intero esercito francese, che gli ispirò di servirsi di un organico leggero, agile, senza carriaggi, salmerie, depositi, ma lo portò sopratutto quel fare incetta dei beni dei territori che andava occupando, ovvero quel vivere “di razzia” tipico delle antiche compagnie di ventura, che lui, questa volta in prima persona e con notevoli caratteristiche di ulteriore sfruttamento, sviluppò in maniera autonoma e con indubbie peculiarità di originalità: fin da principio difatti non si limito’ a razziare beni di sussistenza, ma comincio’ ad imporre ai vari territori, gabelle, indennità in denaro e anche confisca di beni e di opere d’arte, aggiungendo così alla questione prettamente militare di una vittoria determinati riscontri di tipo economico che indubbiamente portarono i membri del Direttorio a non andare troppo per il sottile nel determinare la perizia di questa o quella azione militare. Tra l’altro, con il passare dei giorni (invero piuttosto incalzante) il giovane Generale era imbattuto in un’altra fortunosa vittoria, che ha un “topòs” preciso nell’immaginario collettivo dell’epica napoleonica e una precisa sottolineatura da parte di sé stesso : il ponte di Lodi, ovvero lo scontro che ebbe con la retroguardia austriaca passato alla storia come battaglia di Lodi del 10 maggio del 1796, perchè è proprio da questa battaglia, non di fondamentale importanza militare, ma di stratosferica importanza psicologica, si era andato costruendo nell'immaginario collettivo della storia, il Mito della invincibilità napoleonica, entusiasticamente avallato da un punto di vista utilitaristico da tutto il Direttorio, sempre più abbagliato dal vedersi gratificato di bottini di guerra dai territori conquistati, prontamente e con forte strombazzatura mediatica trsferiti a Parigi con anche il crescente entusiasmo della popolazione.Degno di nota il fatto che che proprio l'interessato ovvero il novello stratega cominciava un po’ ad entrare nella “parte” del generale vincitore “per parte” contribuì non poco alla formazione di questo vero e proprio mito, asserendo nelle sue memorie che in lui la visione della futura grandezza gli derivò appunto da quella battaglia " Fu solo nella serata di Lodi "raccontò nelle sue memorie "che cominciai a ritenermi un uomo superiore e che nutrii l'ambizione di realizzare grandi cose...." insomma una sorta di assai proficua frenesia si impadroni’ di attore, pubblico e anche soprattutto regista, come dicono ancor oggi i francesi “metteur en scene” Difatti il Direttorio, preso atto con gradita sorpresa che le notizie del fronte italiano avevano un favorevolissimo impatto in tutta la Francia, pensò bene di enfatizzare quella scelta, che a parte i sottesi favori, le regalie, ed anche i compromessi risultava esclusivamente propria; pensò bene, quindi di enfatizzare la figura del giovane, fino ad un paio di mesi prima completamente sconosciuto Generale, quasi facendo un ideale eco a quelle impressioni del tutto soggettive del protagonista. Poco importanza aveva il fatto che in verità la battaglia di Lodi era stata in realtà uno scontro vinto contro una retroguardia dell'esercito austriaco comandata dal Gen Sebottendorf, che Beaulieu aveva appunto lasciato di presidio a Lodi. L’agiografia storica e non solo quella napoleonica si è sempre compiaciuta di mostrare la differenza tra i due Generali Beaulieu e Bonaparte, il primo quasi un vecchio trombone ancorato a regole e condotte di guerra sorpassate mentre il secondo portatore delle idee nuove dei tempi che di tali regole si facevano beffe, con differenti strategie: prendendo a motivo proprio questa occasione in cui il Bonaparte aveva ovviato alla distruzione dei ponti e alla requisizione di tutte le barche del tratto di confine con la Lombardia che Beaulieu aveva effettuato per impedirgli di varcare il Po, aveva invaso il neutrale Ducato di Parma per attraversare il fiume a Piacenza e trovarsi di fronte quindi a fronte dell’esercito nemico. Ma anche questa è più leggenda che storia o perlomeno una gonfiatura: difatti Beaulieu dopo l’armistizio di Cherasco e la defezione del Piemonte, non aveva nessuna intenzione di accettare una battaglia campale con l’Armata Francese, anche perché questa proprio in virtù della “messa in scena” che stava cominciando ad ordirsi del generale invincibile, aveva ricevuti notevoli rinforzi di uomini e materiali ed era in netta superiorità numerica: la verità è che Bealieu stava effettuando una perfetta ritirata strategica e per farla, ponendo il grosso del suo esercito al sicuro oltre l’Adda, aveva anche usato lo stesso stratagemma utilizzato dal suo più giovane antagonista: invadere uno Stato neutrale, nella fattispecie la Repubblica di Venezia. Quindi neppure quella di un nuovo modo di fare le guerra secondo lo spirito della Rivoluzione, ispirato come abbiamo visto alla teoria del Saggio di Guibert, che se ne irrideva di tutte le regole della guerra del XVIII secolo, era una verità, tant’è che proprio un Generale di quella vecchia scuola l’aveva utilizzata senza problemi. . La verità è che Napoleone fece mostra di una sorta di abbaglio, che tendera’ spesso a ripetere e che già di per sé inficia quella nomea di grande stratega e generale invincibile che contemporanei e posteri gli hanno attribuita : non valutare con esattezza l’entità delle forze nemiche: qui a Lodi si tratto’ di una sopravvalutazione, ovvero scambiò una retroguardia per l’intero esercito nemico, a Marengo quattro anni dopo, si ebbe il netto contrario: scambio’ l’intero esercito austriaco per una retroguardia. Ora, se nel primo caso lo sbaglio fu facilmente riparato ed anzi si potè, anche da parte del Direttorio, gonfiare la cosa e farla passare per una grande vittoria, a Marengo se non ci fosse stata la disubbidienza di un suo sottoposto il Generale Desaix che contrariamente agli ordini che gli erano stati impartiti fece marcia indietro con le sue due Divisioni, e le scaglio’ contro l’esercito nemico che già si era impadronito del campo, sarebbe stata certamente la disfatta e non quella straordinaria vittoria , di gran lunga la preferita da Napoleone, caratterizzata da quella mitica frase “una battaglia è perduta? c’è il tempo di vincerne un’altra!” frase che non si è neppure sicuri della sua effettiva pronuncia da parte del Gen. Desaix prima di perdere la vita colpito in pieno petto da una palla nemica, appena slanciatosi alla testa delle sue Divisioni contro gli austriaci, frase che ovviamente fu fatta passare per vera, destinata a rimanere per sempre nell’immaginario dell’epopea napoleonica, anche se a ben vedere avrebbe dovuto rappresentarne la relatività. Torniamo quindi al cospetto di quella quasi magica entità che cominciava a seguire il Generale Bonaparte, la Fortuna, che forse poi tanto fortuna non era, che metteva in correlazione le vicende belliche del generale con le aspettative che il popolo francese si aspettava da lui e un Direttorio, più che appagato dalle prebende di quella sorta di scaramucce e minacce, che quindi si premurava di confezionargliele adeguatamente. Che questa fatidica manifestazione di questa curiosa fortuna non riposasse, militarmente parlando, su niente di straordinario lo deduciamo dalla semplice cronologia degli episodi salienti della battaglia di Lodi : le avanguardie francesi arrivarono difatti in vista di Lodi nelle prime ore della mattina del 10 maggio, quando ormai l'intero esercito austriaco era in salvo oltre l'Adda, mentre alla difesa della cittadina era rimasta una retroguardia di 10.000 uomini agli ordini del generale Karl Philipp Sebottendorf. Questi aveva piazzato tre battaglioni e sei cannoni in posizioni che dominavano il ponte di Lodi e la strada d'accesso e altre due sezioni di tre pezzi l'una erano appostate in ogni lato della strada. Napoleone attaccò frontalmente sul ponte con i Granatieri mentre con un contingente di cavalleria cercava di guadagnare un guado per aggirare gli austriaci, che però riuscirono a bloccare l’assalto dei granatieri proprio a meta’ del ponte, sicchè il Gen. Massena si vide costretto ad intervenire e con il concorso di altri generali Berthier, Dallemagne e Cervoni riuscì a guadagnare la sponda opposta .Un contrattacco di Sebottendorf fece quasi riprendere agli austriaci il ponte, ma sempre il solito Masséna cui si aggiunse l’apporto di un altro dei Generali in seconda di Bonaparte, Augereau, riuscì a stroncare l'azione irrompendo nelle linee nemiche, venendo quindi favoriti, i due comandanti in seconda dell’Armata nel pieno successo, dal provvidenziale arrivo dei cavalieri del Gen. Ordener che nel frattempo avevano trovato un guado. Sebottendorf si disimpegnò subito e si ritirò verso il grosso delle forze di Beaulieu, lasciandosi dietro 153 morti, 1.700 prigionieri e 16 cannoni. I francesi ebbero in totale 350 perdite, comunque la a vittoria di Lodi fu ben lungi dall’essere un grande successo così come fu subito rappresentata ed anche così come è stata tramandata, difatti fu conseguita su di una semplice retroguardia dell’esercito principale, il cui Generale subordinato Sebottendorf, riuscì a disimpegnarsi con quasi tutte le sue truppe per confluire nella perfetta ritirata strategica del comandante in capo Beaulieu, che a conti fatti non fu affatto quel pigmeo rispetto al gigante cui la storia ha voluto tramandarlo. Da una parte Napoleone non fu esattamente quell’interprete straordinario di novello genio militare, cui proprio da quei tempi è stato cominciato ad additarsi; dall’altra Beaulieu, come abbiamo appena visto, fu tutto tranne che un incauto e sfortunato generale che ebbe a cimentarsi contro il “genio” per antonomasia , venendo battuto a ripetizione, ma un oculato stratega, magari non di spirito offensivo, ma di certo un vero maestro di ritirate strategiche. Abbiamo visto che a creare, specie la prima di “leggenda” fu proprio il Direttorio per motivi di opportunità e convenienza: conveniva difatti ad un Organo di Governo, asceso così rocambolescamente al potere, senza alcuna legittimizzazione legale e popolare, sfruttare le occasioni della Fortuna, quale si presentassero, per oscure e contraddittorie che fossero, ecco! proprio del tipo di un generale venuto dal niente, praticamente senza una carriera a sostegno, con un incarico avuto piu’ che altro per camarille “di letto” e che potesse essere investito di una gloria tutta da gonfiarsi, appunto fargli “recitare quella parte” che abbiamo ripreso dalle tesi di un vecchio e dimenticato storico e che oggi in una fase della storia del mondo, che questo “recitare una parte” sembra diventata una caratteristica non solo episodica o accessoria di “esser-ci”, dovrà essere argomento di approfondimento e dovrà essere sviscerata fino all’esaurimento. In effetti conveniva al Direttorio, conveniva a quel po’ di Rivoluzione che ancora accompagnava il Popolo francese, conveniva alla guerra in corso contro le coalizioni europee, conveniva anche alle finanze dello Stato, sempre in cerca di soldi, che un Esercito sul campo provvedesse a emettere tributi, fissare indennita’ di guerra, fare razzie e incetta di opere artistiche dei territori che via via occupava, il tutto da inviare sollecitamente alla madre patria: un qualcosa quindi, questa supposta grandezza che alla fin fine, come abbiamo visto dalle memorie dello stesso Napoleone della notte successiva allo scontro di Lodi, stava cominciando a far breccia, innanzi tutto su se stesso sulla sua particolare personalità, che per la prima volta si sentiva come investito di un potere straordinario e che di lì a poco, possiamo stare tranquilli, tutti, ma proprio tutti, amici e nemici, popolino e grandi uomini, contemporanei e posteri, gli riconosceranno all’unisono. C’era uno dei punti elencati che dobbiamo esaminare con maggior dettaglio, strettamente correlato alla questione del recitare una parte e del gonfiarne i connotati : la questione del chiedere denaro come indennità ai vari Stati cui l’esercito si trovava a passare e operare razzie, un po’ a mo’ di vecchio esercito di ventura, in stretta associazione col suo impatto di minaccia e terrore verso le popolazioni: in questo Napoleone si cimenta alla vigilia della battaglia di Lodi invadendo la neutralità del Ducato di Parma, ma non solo limitandosi ad occuparne i territori e requisendo tutte le imbarcazioni per il passaggio del fiume, ma altresì fissando una indennità e operando ruberie. Ecco la stessa identica cosa fa subito dopo, indentrandosi nel Milanese e anzi rincarando la dose, andandoci giu’ con mano molto più pesante: chiede al Ducato di Milano 20.000 franchi una cima enorme per il cui pagamento indubbiamente il Ducato non si sarebbe potuto esimere senza imporre una tassazione a tappeto di tutti gli abitanti, e non solo, ma si lascia andare a lanciare proclami con minacce di saccheggi, plotoni di esecuzioni se non verra’ esaudito, di poi alquanto contrariato che il Direttorio gli ha imposto di cedere metà del comando della sua Armata al Gen. Kellerman, figlio del famosissimo generale della cannonata di Valmy del ’92, arriva al punto di minacciare il ritiro.In merito allo sdoppiamento dell’Armata come al solito ubbidisce anche se controbatte con una amara lettera ove più che alla divisione dell’Armata, si cruccia del fatto che non si pensi più a quella “manoeuvre sur le derriere” che era stata fissata dal famoso piano dei Generali del Direttorio di invasione della Germania nel 1795 (tra cui lui stesso) , ma unicamente a ricacciare in Tirolo gli Austriaci, cosa appunto che il Direttorio lasciava intendere di voler incaricare Kellerman e di converso, per lui, stabilire una sorta di raid per l’Italia centrale fino all’occupazione di Livorno che solo molto genericamente avrebbe dovuto fiaccare la resistenza dell’intero Paese ed anche di forze inglesi che lo presidiavano: la verità e’ che il Direttorio abbagliato dai proventi che gli arrivavano dalle incursioni del suo Generale, nei vari Stati italiani, non aveva altre raccomandazioni se non quelle di insistere in questa pratica di non solo “finanziare la guerra con la guerra” , ma fare assai di più : finanziare l’intera Francia di moneta sonante e altresì foraggiarla di opere d’arte, di magnificenze, di tesori. Così anche di quella suddivisione del comando d’armata, dopo la equilibrata ma ferma risposta di Bonaparte, che come si vede cominciava a essere uno che sa il fatto suo, non se ne fa più nulla (ha troppo paura il Direttorio di perdere la sua gallina dalle uova d’oro) e anzi Kellerman veniva inviato in Italia con 10.000 uomini di rinforzo, ma in sottordine a Bonaparte. Diciamo che dopo Lodi e con la presa di Milano, la Fortuna gioca sempre alla grande, però, e’ doveroso notare che il suo massimo beneficiario ci mette ogni volta qualcosa in più di suo : si d’accordo era stato un abile spauracchio per i vari per lo più imbelli Stati Italiani, ivi compresa la Repubblica di Venezia che il Direttorio si raccomandava di considerare potenza non amica e pertanto invadere con tutta tranquillità i suoi territori e richiedere le solite indennità e fare le solite requisizioni di tesori e opere d’arte, ma ora si slancia con foga contro la linea del Mincio verso Borghetto dove costringe Beaulieu alla sua solita ritirata strategica oramai nella valle dell’Adige tranquillamente verso il Tirolo, ma disimpegnando suoi 20 battaglioni alla difesa della estrema fortezza di Mantova che a questo punto, in quella seconda parte di maggio 1796 era l’ultima fortificazione austriaca di tutta la Lombardia. Neppure Borghetto era stata una grande vittoria, però come al solito aveva lasciato Napoleone padrone del campo e questo tradotto nel linguaggio per il Direttorio, significava altre cospicue entrate, mentre da parte dello stesso Direttorio significava profferire ulteriori allori, sempre per quella parte da gonfiare e da fare recitare al più che volenteroso comandante in capo. Insomma parliamoci chiaro: il Direttorio diventa davvero quel punto di coagulo di tutte le operazioni che in qualche modo finiscono nelle sue casse e in qualche modo all’intera cittadinanza e quindi si fa anche cassa di risonanza in merito alle imprese di quel, fino a ieri sconosciuto Generale. Un destino fatto di alcune secondarie battaglie, parecchie scaramucce, una grande dose di fortuna, che si è compiaciuta di fissare la sua mano su di un paio di località e vere e proprie sequenze, magari prefissate di eventi, come la defezione Savoiarda all’Austria e l’armistizio di Cherasco, l’abbandono quasi senza colpo ferire di Ceva e poi del Ponte di Lodi presidiato solo da una retroguardia, mentre il grosso dell’Esercito era oramai al sicuro, Generali avversari, sia quello savoiardo Colli, che quello austriaco Beaulieiu, per nulla dominati dalla genialità del giovane comandante francese, ma che anzi erano stati più che altro degli abili tessitori di ritirate strategiche ed infine neppure messi in scacco dai tempi nuovi della Rivoluzione, con la leggenda che imponevano metodi e strategie diverse di guerra, senza rispetto di regole, osservanza di patti, rispetto di neutralità di Paesi non ostili, perché se questa fu una delle peculiarità di Bonaparte di certo il comandante austriaco non fu da meno, tant’è che, per ritirarsi oltre il Mincio non si curò minimamente di infrangere la neutralità della Repubblica di Venezia. Semmai, ecco si può dire che Napoleone lo fece molto di più, ma non ci illudiamo, in questo costantemente istigato dal Direttorio, che raccomandava di non considerare più alcun Paese neutrale, ma tutti alla stregua di possibili alleati del nemico e pertanto utilizzare la forza delle armi per indurre i pavidi, ma ricchi e floridi Paesi italiani a pagare tributi e a consentire il sistematico spoglio dei loro tesori e opere d’arte. La verità è che non è Napoleone, né nessuno dei suoi Generali e soldati, il responsabile dell’avventura italiana e delle sue immense conseguenze, dice ancora Ferrero, nel sistematico ragguaglio che la sua opera “Avventura” ha con il presente scritto: il responsabile è il Direttorio, il Direttorio, come abbiamo già osservato, organo direttivo e di governo illegittimo, il quale non potendo trovare alcun principio di diritto nel suo operare, ecco che all’improvviso lo aveva trovato in alcune secondarie imprese militari su di un fronte secondario, in merito ad una sua sorta di scommessa su di un generale sconosciuto che grazie anche a indubbi colpi di fortuna aveva colpito l’immaginazione delle folle. Bhe! superfluo dire che se quel Generale era frastornato, tutto il Direttorio quasi non credeva a quanto si stava compiendo sotto ai suoi occhi: la creazione di un Mito, in linea coi tempi di infatuazione romantica, dell’uomo solo e sconosciuto che in forza del suo talento, del suo genio, della sua grandezza degna di essere accostata ai più grandi condottieri, che trionfa su tutto e su tutti e non solo; ma a parte questa fama che difatti da Parigi comincerà a caldeggiare, a gonfiare ogni oltre limite, si profila questa straordinaria occasione di trarre, grazie al ricco e sguarnito serbatoio italiano, profitti immensi in una guerra che stava facendo ben più di quella medioevale delle compagnie di ventura, che come abbiamo osservato si finanziava da sola: questa è una guerra che per la prima volta nella storia, finanzia e arricchisce la Nazione che l’ha ingenerata. Possiamo a contrappasso di tal ragionamento, dire che la figura del giovane generale Bonaparte stava emergendo dalle brume della storia con caratteristiche invero uniche e inusitate: anche ai tempi di Roma c’era l’Homo Novus, Caio Mario, Agrippa, Seiano, Vespasiano, ma era sempre inserito in un contesto preordinato senza possibilità di essere troppo innalzato sulle masse se non con il meccanismo dell’adozione o di quello estremo della deificazione; per tutta la storia dell’umanità fino alla Rivoluzione Industriale, nessuno, se non eccezionalmente Capitani di Ventura, Banchieri, Magistrati che riuscivano ad ascendere alla guida di una Signoria, ma mai comunque a livello di Regno o di Impero, erano riusciti ad emergere in modo così netto: è con la Rivoluzione Industriale che ora per la prima volta si diparte questa nuova possibilità essendovi tutta un’altra serie di parametri in gioco : anzitutto quello fondamentale che non è più l’uomo il riferimento principale dell’essere al mondo, bensì la macchina: equiparato ad una macchina anche l’essere umano può essere oggetto di costruzione, di assemblaggio, di sostituzione, di demolizione, e questo attribuendogli anche una serie di qualità accessorie, tipo una bella coloritura, la lucidatura di condotti, materiali più pregiati etc. L’uomo viene espropriato della sua essenza ma assume il senso del suo apparire, ed ecco che, per favorire questo apparire, possono essere messi in campo tutta una serie di espedienti, la pubblicizzazione, l’esaltazione, la gonfiatura, spesso e volentieri del tutto arbitrarie delle sue gesta, o meglio quelle che si vuole che siano passate per gesta, quindi fargli “recitare una parte” e fare in modo che questo recitare una parte sia del tutto indistinguibile dal farla per davvero. Ferrero parla di strano destino che Napoleone Bonaparte sia stato nel contempo il più celebre e il piu’ sconosciuto degli uomini: un uomo che il mondo non doveva mai conoscere tale quale è stato, un uomo di cui si sarebbe visto un doppione creato dall’immaginazione credula delle folle: Io non credo che possiamo parlare di “strano destino” : è il destino dell’uomo moderno venuto fuori dalla Rivoluzione Industriale, venuto dalla sua identificazione con la macchina, il meccanismo, l’ingranaggio, che ha fatto si che oramai la sua identità non sia recuperabile se non nella molteplicità dei suoi apparire, nella proliferazione di sempre nuove “parti” che una società sempre più atomizzata e spersonalizzata non ha fatto altro che assegnargli in questi ultimi due secoli e mezzo. Siamo, da una parte con “l’uomo ad una dimensione” di Marcuse, ravvediamo l’insetto di Kafka, da lontano la Balena bianca di Melville, quindi l’eterno Dottor Faust alle prese con il Mefistofele di Goethe, che si fa la malattia commista però all’arte nel Doctor Faust di Thomas Mann, ma si ritorce in se stesso rispetto al potere costituito nel libro del figlio di Thomas, Kaus Mann: Mephisto . E’ l’uomo che non ha mai più ritrovato se’ stesso, perdendolo nella frammentarietà delle sue rappresentazioni e delle sue identificazioni, tutti quei “recitare una parte” hanno seppellito l’unica vera parte di se stesso, sicchè alla fine proprio come i personaggi di Pirandello, si ritrova anch’egli in cerca di autore.

giovedì 11 novembre 2021

IL SECONDO FREUD: TUTTO SUPER COME LE STRINGHE

Mi piace l’idea di sintetizzare tutta la psicoanalisi con  solo due paroline, : FORT-DA  mettendoci avanti il termine “ES suscettibile di caratterizzarsi di quel prefisso "Super" che lo giustappone all'Io, ultimando  come una vera e propria dialettica, ma non Hegeliana, l'intera costruzione della topica freudiana : Io, Es, Super Io e.... mancante un Super Es. Ovviamente siamo in  accezione freudiana, ma non freudiana tutta, bensì quella degli ultimi 20 anni di vita del Maestro, antitetica a quella dei precedenti 20 anni fondata sul principio del piacere, e appunto iniziata con un saggetto de 1921 titolato “AL DI LA’ DEL PRINCIPIO DEL PIACERE. L’esortazione di Lacan “leggere e rileggersi Freud”, va non solo presa alla lettera, ma se possibile integrata con qualche appuntino, magari per tentare di dire qualcosa fuori dal coro  o per puntualizzare qualche passaggio.  “Freudiana-mente”  dunque! ma quale Freud? Quello canonico, a volte caricaturale, che lo fa apparire come un fissato col sesso, uno che ogni  obelisco, ogni guglia equipara all’organo sessuale maschile e ogni cavità, ogni rientranza, ogni fessura, a quello femminile? Per intenderci il Freud della teoria della Libido, il “panta-sesso”? Oppure quest’altro Freud di cui andiamo a fare la conoscenza  tramite un breve ma intensissimo saggio e due paroline /chiave,   come indicato nel titolo. Il cosidetto immaginario collettivo, e per immaginario collettivo si intende anche una certa opinione generalizzata, un qualcosa che spesso e volentieri si avvale di impressioni violente, ma che a buon bisogno non sono state mai più aggiornate, tipo ad esempio il Girolimoni del mostro di Roma, che forse proprio il film di Damiano Damiani con Manfredi ha avuto il grande merito di  cambiare la diceria diffusissima a Roma di indicare con tale nome tutti quelli che mostravano interesse verso ragazzini o ragazzine: Nel film citato difatti si rende finalmente e forse per la prima volta, che si trattava invece di un marchiano abbaglio fomentato dallo stesso Mussolini che su quel nome, su  quel termine “giro”ci aveva intessuto un qualcosa di perverso e quindi era bastato per il canonico “sbatti il mostro in prima pagina” senza che poi, una volta appurato che il signor Gino Girolimoni era platealmente estraneo ad ogni implicazione con gli efferati delitti,  si avesse il coraggio di ammettere l’errore. Si è citato un film, un semplice banale film, sufficiente per mutare una opinione sclerotizzata e inesatta, ma per quel che mi risulta, su Freud non c’è stato nessun film, nessuna precisazione di facile presa, e quindi di grande diffusione, che abbia avvertito l’opinione pubblica che quell’immaginario collettivo sulla figura e sul pensiero di Freud andava aggiornato, e aggiornato mica a ieri o l’altro ieri, macchè!!!! addirittura a subito dopo la fine della 1^ guerra mondiale, quando proprio sull’effetto dei traumi e dell’impatto di un simile evento, Freud aveva scritto quel  saggio ove anche dal titolo si capisce che intendeva liquidare la teoria della Libido, fondata sul principio dl piacere. Va subito detto che le conclusioni sconvolgenti cui questo breve libello perviene sono di una portata così enorme, che nella stessa psicoanalisi ben pochi furono quelli che ne accettarono le conclusioni.  Si ipotizzava infatti, proprio dalla esamina dei cosidetti “shock da granata”, cui tutti i reduci in qualche modo soffrivano, un meccanismo psichico particolarissimo la cosidetta “coazione a ripetere”  che portava detti reduci non a dimenticare ciò che aveva loro arrecato disagio e sofferenza, come il principio del piacere avrebbe imposto (“l’uomo fugge il dispiacere e cerca sempre il piacere”, aveva sentenziato lo stesso Freud), ma al contrario a ricordarlo ossessivamente, sia consciamente, raccontando mille, milioni di volte l’episodio traumatico, come tutti noi abbiamo avuto modo di verificare se abbiamo avuto modo di frequentare dei reduci di guerra, sia inconsciamente, nei sogni, nelle fantasie. Di tale coazione a ripetere, anche e soprattutto la sofferenza, Freud in quanto medico aveva avuto modo di  appurare durante tutto il lungo periodo della guerra e questo lo aveva portato a cominciare a mettere in serio dubbio le sue certezze sul principio del piacere, fino ad essere spettatore, oramai a guerra finita, di un episodio di una banalità quasi disarmante : in visita ad un suo nipotino, aveva visto che questi si entusiasmava in maniera esaltante, gettando un rocchetto oltre la spalliera di un divano sicchè non fosse più visibile e a quel punto si produceva  in lamenti accorati, che cessavano solo quando attraverso il filo dello stesso rocchetto lo ritraeva di nuovo a sé, producendo a stretta correlazione  con  le  diverse fasi delle azioni, opportune vocalizzazioni  precedute da un “Oooohhh”:  la prima “Fort” che andava inteso come“ va via” e la seconda  “Da” che invece significava “rieccolo”. Beh ! ragazzi… sono certo che nessuno di noi avrebbe cambiato lo stesso modo di intendere il mondo da una banalità simile, cui a buon bisogno avremo  anche assistito  tantissime volte, ma nessuno di noi si chiama Sigmund Freud!  Solo Freud  difatti, da quel giochetto apparentemente banale doveva arrivare a dedurre che il bimbo, lanciando il rocchetto lontano da sé, simboleggiava  la perdita della madre e, ritraendolo poi attraverso il filo dello stesso rocchetto  di nuovo a sé, ne rappresentava il ritorno.  Piacere e dispiacere intessuti insieme, non contrastanti, ma un tutt’uno, quindi come  logica conseguenza: profonda revisione di tutta la sua precedente teoria della libido fondata sul principio del piacere e individuazione proprio attraverso il meccanismo della coazione a ripetere, di un principio non solo contrastante con il piacere, ma addirittura composito e anzi più potente, che però a questo punto non poteva essere denominato tout court di dispiacere, ma di un qualcosa di molto più profondo e di arcaico, che  Freud individuò in una “pulsione di morte” Ovvero proprio in virtù della coazione a ripetere, l’uomo come tutte le cose del creato, tende a voler tornare da dove è venuto, ovvero dal nulla. Per dare maggior corpo a tale teoria Freud trovò correlati col 2° principio della termodinamica  (in un sistema chiuso tutte le forze tendono allo stato di quiete) e col fatto che ogni nascita comporta la rottura di uno stato di quiete, quiete che il sistema “turbato” tenderà a ristabilire;  la famosa legge dell’entropia, ovvero l’aumento del disordine che potrebbe benissimo venir equiparato alla vita stessa e quindi alla forza che lo anima “Eros”  mentre lo stato di quiete cui si tende a ritornare avrà il suo fine nella forza, non-forza,  che solo apparentemente è antitetica “Thanatos” una eterna insopprimibile pulsione di morte.  Come fatto cenno, questa teoria, sconvolgente fino alla vertigine  non solo non è stata mai accreditata nell’immaginario collettivo e generale, ma gli stessi addetti ai lavori, e cioè gli psicoanalisti, fatte salve poche eccezioni (Ferenczi, Melanie Klein, Lacan, Fagioli) l’hanno profondamente avversata, questo soprattutto perché con l’introduzione di una pulsione di morte, per ammissione dello stesso Freud (Analisi terminabile e interminabile)  viene meno ogni illusione terapeutica, proprio per l’individuazione nella psiche di un nucleo patogeno fisso, qualcosa che non è possibile mai scaricare  per intero, che continua a ripetersi sempre identico a se stesso al di la’ di ogni teleologia vitalistica. Va notato che al di là dei luoghi comuni su Freud, che lo ritraggono ancora come un pantasessista, legato solo al piacere, dal 1920 anno della pubblicazione di Al di là del principio del piacere, fino alla sua morte nel 1939,  e quindi per un periodo equivalente a quello in cui aveva diffuso la sua teoria della Libido, mai e poi mai Freud ha messo in discussione la sua teoria della pulsione di morte, sancendo in tal modo l’inguaribilità del disagio psichico e  l’inutilità della terapia. (Analisi terminabile e interminabile 1937) . Sarebbe pertanto il momento di confrontarci, anche a livello di opinione pubblica con questi secondi vent’anni della sua vita, ricchi peraltro di saggi e teorie, non certo meno profondi  di quelli dei primi,  anzi….facendo leva su di un pensiero e su una teoria  che sono  l’esatto contrario di quelli del precedente  periodo

 

IL CAPOVOLGIMENTO DEL FUTURO ANTERIORE

il Wall Street Journal ha riportato un rapporto del governo Usa dove si afferma che "GLI STATI UNITI STANNO CAPOVOLGENDO LA STORIA, ...