mercoledì 20 marzo 2024

COSCIENZA E INCONSCIO VENGONO DOPO IL LINGUAGGIO

 

Nel libro di Julian Jaynes "il crollo della mente bicamerale e l'origine della coscienza" l'assunto che la coscienza è posteriore, o meglio proprio un derivato del linguaggio, e' ampiamente e circostanziatamente dimostrato, resta semmai da stabilire  donde derivi il linguaggio perche' se vogliamo prendere per buono l'assioma di Lacan che l'inconscio e' strutturato come il linguaggio, ne derivera' per una sorta di sillogismo che anche l'inconscio e' posteriore e un derivato del linguaggio.   Non solo Lacan, ma anche lo stesso Freud  nel saggio che diede appunto avvio alla scienza della psicoanalisi “l’Interpretazione dei sogni”  si riferisce all’asse linguistico  che verrà codificato nella famosa  barra tra significato e significante da De Saussure, asse che  si muove  tra le figure della  linguistica: metafora e metonimia. Cosa sono, difatti ne “l’interpretazione dei sogni, la condensazione e il trasferimento,  se non le due principali figure retoriche della linguistica? E’ una questione di riferimenti! Tutto è riferimento  nell’uomo

perlomeno da quando è pervenuto al linguaggio articolato e ha cominciato conseguentemente  a chiedersi del perché della propria esistenza ma anche al perché della propria insistenza a domandare sempre la stessa cosa “chi sono, dove sono, da dove vengo, dove vado?” Un riferimento è in sostanza una visione, una possibile visione del mondo che dovrebbe consentire di stabilire analogie comportamentali sulla base del proprio linguaggio e del mondo esterno e rendere quindi il tutto “abitabile” nel senso di contrarre abitudini atte appunto ad un essere “presenza” Il riferimento funziona quindi per analogia e struttura una certa visione del mondo che in verità si appunta su di un analogo particolare, un “analogo-Io” che mette appunto in situazione sé stesso rispetto ad un mondo, diciamo alquanto indifferente alla propria “presenza”  Nel corso della propria storia linguistica e  di fattualità, l’uomo ha sempre ricercato  tali quadri di riferimento, che possiamo anche definire “visioni del mondo” esse sono relative al periodo  e al tipo di società in cui sono state applicate, ma proprio in relazione a tale periodo, e a tale Società  hanno un che di assoluto, nel senso che funzionano come un vero e proprio paradigma , cui tutti, bene e male finiscono per aderire. Nel corso della storia  queste visioni del mondo, funzionanti come paradigma,  ce ne sono state molteplici e alcune particolarmente  tenaci  e dilatate, ad esempio la nostra, quella attuale delle nostre “contrade occidentali” ha un arco temporale di quasi trecento anni  e per quanto si sia modificata ed evoluta (o involuta) nel tempo  ha conservato la visione originaria che sostanzialmente è quella della Rivoluzione industriale e dell’avvento della macchina: il nostro è un mondo di macchine, di leve, ruote,  puleggie, che sono, via via andate assumendo  la  connotazione di processori informatici, computer, monitor :il mondo è come un gigantescomagazzino di componenti, fatto di miriadi di pezzi che aspettano solo di essere assemblati in un sistema funzionante. Questo è il paradigma  storico del nostro tempo  e del nostro mondo:  la macchina è così integrata nella nostra persona che è difficile  stabilire dove finisce lei e  dove comincia l’uomo;  anche  il nostro linguaggio si è conformato alla macchina: noi "misuriamo" i rapporti, i nostri sentimenti sono “vibrazioni”, cerchiamo di evitare 

“attriti” e facciamo in modo di “sincronizzarci” cogli altri, piuttosto che stabilire pensieri o affezioni con loro, pensiamo alla nostra stessa vita  come qualcosa che “gira  regolarmente” 
e ci si aspetta  che essa possa essere “riparata”  se qualcosa  in essa si è “guastata”, come se gli esseri umani  fossero semplici pezzi di un  meccanismo che possano essere “aggiustati” o “sostituiti” Questa visione del mondo che ancora costituisce il paradigma  di questo inizio del terzo millennio, visione di un accentuato materialismo e che  giustifica tutto nel nome di una parola  “Progresso” , sta  cominciando però a perdere colpi (proprio come una macchina alquanto deteriorata)  Il relativo della attuale Visione del mondo  cosiddetta “moderna”  anzi post-moderna comincia a farsi sentire non meno delle precedenti visioni del mondo,  che non avevano quella fede cieca nel progresso, tipo quella cristiana  che dominò l’Europa  per oltre un millennio, e  che concepiva la vita solo come attesa di un mondo a venire e l’individuo non doveva avere desideri o mete personali, né cercare miglioramento, né tantomeno cose materiali, ma solo escatologicamente perseguire  la cosidetta “salvezza”,  o tipo quella antica greco-romana che bandiva il futuro a scapito di un passato considerato sempre migliore, che costituiva un’escatologia all’incontrario dove tale passato era equiparato ad una mitica “età dell’oro” e tutte le epoche venute dopo ne  rappresentavano un inesorabile degrado.
Ecco l’esempio che ne fa il poeta greco Esiodo “all’inizio un’aurea generazione di mortali fu creata dagli dei immortali dell’Olimpo, essi erano simili agli dei , non erano afflitti da dolori e malattie e l’abominevole vecchiaia  non li attendeva al varco, ma restavano sempre eguali  e quando morivano erano come immersi in un sonno” A pensarci bene che cosa era questa “età dell’oro” se non la giovinezza? Una metafora presa dal riferimento più immediato, il corpo appunto, 
ma preso nel suo momento di massimo fulgore, la giovinezza con le membra vigorose, l’aspetto leggiadro, la bellezza, la piena salute, l’entusiasmo: parola che letteralmente significa avere un dio dentro di sé, “en-theos” ….e qual’è per un mortale l’unico modo per essere così simile agli dei dell’Olimpo?  Paradossalmente morire giovane, si’ che l’abominevole vecchiaia  non venga a distruggere quella perfetta armonia corporea. La archetipa visione del mondo del nostro mondo occidentale  quella di Esiodo, di Omero e ancora di Orazio, di Virgilio, è una giovinezza resa paradossalmente immortale da una morte precoce, il netto contrario di quella moderna, fondata invece sulla macchina, sul suo deteriorarsi e conseguente aggiustarsi, al limite sostituirsi per pezzi, dove la metafora tra corpo e macchina  induce una morte sempre differita, un prolungare fino allo stremo quell’assemblaggio di pezzi del tutto indifferentemente dall’aspetto estetico, dal vigore, dall’efficienza. Abbiamo però visto come tale “visione” stia oramai mostrando la corda, e non perché il referente-corpo non si presti ulteriormente  ad un suo prolungamento quantitativo di numero di anni, quanto per l’esaurirsi  del campo di applicazione quell’”ex-sistere” che non riesce più a contenere “l’in-sistere”  Ed ecco che entra in gioco l’entropia, che gli antichi non conoscevano concettualmente, come non conoscevano il 2° principio della termodinamica, ma che entrambi li presupponevano quasi come  sorta di “contro-assicurazione” per scongiurare le più grandi malefatte dell’essere, ovvero, la malattia, la vecchiaia, un inutile e stracco accumulo di anni  progressivamente e proporzionalmente  in credito di bellezza e entusiasmo.
La legge dell’entropia  è il fondamento del 2° principio della termodinamica , ovvero il principio  che stabilisce che  materia e energia  possono modificarsi in un sola direzione  da forme utilizzabili a forme non più utilizzabili , di cui appunto l’entropia è una misura del grado  in cui in  ogni sistema 
dell’universo l’energia disponibile si è trasformata in una forma  non più disponibile, e il secondo principio della termodinamica  è anche il principio di cui si è avvalso Freud  per  ribaltare la sua concezione della  vita come libido volta a sfuggire il dolore e perseguire il piacere, con il saggio dal nome che è tutto un programma “al di là del principio del piacere” e la scoperta di una pulsione di morte come ultima ratio della coazione a ripetere, ovvero ripetere, sempre ripetere, fino ad arrivare all’ultimo girone del desiderio  che coincide in sostanza nel voler far ritorno da dove si è venuti, il nulla, prima che cominciasse il processo entropico di consumare tutta l’energia disponibile che potremmo anche equiparare al processo storico, e quindi la morte e non solo quella termica supposta dalla termodinamica , ma quella dell’intero sistema vivente. L’entropia mina l’idea che la storia sia volta al progresso, e la tecnica, la tecnologia e le sue varie forme di evoluzione, fino a quelle di oggi, della digitalizzazione e dell’informatizzazione:  la antica “technè”  originata dal furto di Prometeo della scintilla divina del fuoco, il suo strumento più appariscente : la technè, questo gli antichi lo avevano espresso a chiare lettere, non è quel paradigma di assoluto valore, che l’umanità superando la triste visione escatologica cristiana, ha creduto di identificare nella macchina;  essa  ingenera si’ una diversa modalità temporale, non più ciclica, ma progettuale, ma parimenti  ne pone i suoi limiti e la sua bivalenza : le catene che avvingono alla roccia del Caucaso l’autore del furto agli dei, Prometeo, sono di ferro ovvero di una lega di metalli, tra i primi prodotti di quella stessa “technè”. Il pericolo che proprio l’entropia possa costituire l’ultima versione di queste  visioni del mondo  è quanto mai plausibile e trova proprio sia negli antichi scritti o in quel saggio sopra accennato di Freud una sua  interazione : una visione del mondo non fondata su di una età dell’oro con  un passato da recuperare e far tornare allo splendore, ma una che vada verso quella terrificante "eta' del ferro"   con una umanità serva di pochissimi oppure con una visione del mondo, fondata  sul nulla, a cui irreversibilmente l’umanità tenderebbe a far ritorno, quel “non-essere” che qualcuno ha chiamato “morte”

 

lunedì 11 marzo 2024

UN FANTASMA COME PENSIERO E COME FENOMENO

Non ho ho mai avuto una grande stima e neppure una grande opinione di Hegel come filosofo, e questo vale per la sua dialettica e per la  abbondanza di frasi e frasette apocalittiche del tipo "cio' che e' reale è razionale e viceversa " ma ho appuntato la mia critica sopratutto sul suo saggio "fenomenologia dello Spirito" laddove ho sempre  sempre pensato che quel termine "spirito" potesse essere  inteso come  un eccedente semantico e quindi addossarvi sul suo significato anche quello  di spettro, fantasma, revenant ; quindi se  dovessi definire con una certa maggiore varieta' tale termine e  conseguentemente  il pensiero di Hegel,  direi che il suo e' un pensiero fantasmatico: egli difatti  nella Fenomenologia dello spirito, parla di coscienza, autocoscienza e ragione come parti o fasi dello spirito , laddove io le potrei anche intendere come parti fantasmatiche del tutto scollegate da una realta'. Prendiamo l’autocoscienza che non e' da lui intesa come coscienza di se stessi, ma si inserisce nel contesto sociale e quindi politico, aggiungendosi quindi alle numerose cose e conoscenze che piu' di un filosofo, pensatore, scienziato, matematico, hanno, prima e dopo di lui, posto non in noi stessi (in-sistere) ma al di fuori, all'esterno di noi (ex-sistere). Comincio' Platone col suo iperuranio o mondo delle idee, inaugurando quindi quel dualismo che ha perseguitato tutto il cammino della conoscenza occidentale (Campanella, Cartesio, Hobbes, Newton, Marx, pero' non Kant che si avvale della sua triplice critica (Ragion pura, Ragion pratica, Giudizio) per uscire da tale impasse. Per Hegel invece, quando il soggetto si confronta con gli altri da sè, entrano in gioco tutta una serie di relazioni, ma anche di conflitti, che pongono in essere il rapporto con l'altro e quindi l’esistenza delle altre autocoscienze. Da qui nasce la figura dialettica servitù-signoria, che come e' noto decretera' la fine della storia, (anche la fine puo' avere un corrispettivo nel termine Spirito) nella accezione del trionfo della prima e quasi ad inverazione della teoria delle quattro eta' del mondo di Esiodo la cui ultima eta' della storia e' appunto "quella dei servi" - Se dovessimo sempre seguire Hegel c'è un altro fattore che il filosofo pone come fine della storia, un fattore di azzeramento di tutti i contrasti in lui stimolato dall'incontro con Napoleone dopo la battaglia di Jena nel 1806 dove

appunto il fatto di non avere piu' rivali, indicherebbe nel Corso una sorta di ineluttabilita' a mò di Legge dell'entropia, degli eventi umani tendenti verso l'appianamento di ogni contrasto. Ribadisco quanto sia poca la mia considerazione verso Hegel: fin dai tempi del liceo non ho fatto altro che trovare la sua filosofia velleitaria, rigidamente schematica e sostanzialmente sbagliata. Anche in questo appuntino non mi smentisco - la sua fenomenologia e' di una banalita' disarmante, tra l'altro sarebbe bastato aspettare qualche mese e avrei voluto vedere come avrebbe considerato Napoleone dopo la battaglia di Eylau, per non parlare di un paio di anni dopo in Spagna.
Riguardo la supposta grandezza della funzione autocosciente umana anche qui non si può non cogliere l'infondatezza delle sue tesi . Le critiche alla “ragione strumentale” da parte di alcune correnti filosofiche, per esempio la cosiddetta Scuola di Francoforte o il “secondo” Heidegger. o quelle di certa filosofia orientale che si affida all’intuizione, al “vuoto mentale”, come nello Zen, cercando, quest’ultimo, di fare a meno della ragione nella sua totale estrinsecazione umana, in favore, come detto, di uno stato mentale che d’acchito — analogamente all’intuizione di H. Bergson — comprende le cose, per poi agire nella realtà. Tutti questi e altri approcci analoghi, solo tangenzialmente toccano la tematica specifica dell’autocoscienza, mentre riflettono direttamente sulle attività cognitive deputate, appunto, al calcolo e quindi alle strategie per risolvere problemi reali nella realtà quotidiana, essendo attive anche in assenza di autocoscienza.
A questo riguardo è molto suggestivo il libro che ho citato assai spesso e che è un pò la mia Bibbia procedurale in tema di pensiero e ragionamento “Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza” dello psichiatra americano Julian Jaynes che, con argomentazioni giustappunto estremamente suggestive, e per me più che convincenti, elenca tutte le funzionalità umane, la concettualizzazione, l’apprendimento di soluzioni pratiche o addirittura il pensiero stesso che possono essere operanti in assenza di autocoscienza. Anche Wilhelm Reich ha espresso considerazioni che conferiscono estrema importanza all’autocoscienza, cui attribuisce la responsabilità dell’allontanamento dalla natura degli umani non più capaci, perchè consapevoli, di abbandonarsi alla pulsazione della stessa natura. La specie umana, da circa centomila anni, non ha subito mutamenti di grande rilievo, si è stabilizzata, il chè vuol dire che un soggetto umano di centomila anni fa è sostanzialmente uguale a noi. A riguardo è interessante ricordare F. Nietzsche e l‘antropologia filosofica — M. Scheler, il Nietzsche cristiano, come diceva di lui Troeltsch e ancora Plessner e Gehlen, che invece parlavano di una natura umana ancora instabile, cioè incompleta e situata nella natura in “posizione eccentrica”, perchè il suo apparato pulsionale-istintuale, pur potente e di certo assolutamente naturale, non è rigidamente determinato come nelle altre specie. A fronte di queste caratteristiche, la capacità culturale umana, prevalentemente razionale, essendo pressochè infinita, è aperta a ogni cambiamento, funzionale o disfunzionale. L’errore, dunque, riguarderebbe l’emergere dell’autocoscienza, o meglio di quelle proprietà cognitive che rendono il soggetto capace di visualizzare se stesso, di ragionare sul suo essere in vita e sulle capacità dei suoi atti volitivi, nonchè porsi il significato del suo stare al mondo, e della sua finitezza solitamente implicato, almeno dal punto di vista storico, con concezioni trascendenti e comunque non totalmente radicate nella realtà contingente. Non è un caso che vengono considerati di derivazione umana i reperti archeologici quando essi siano segni di cerimonie o siti funerari. La consapevolezza della propria morte è caratteristica dell’autocoscienza e quindi essa viene utilizzata come fonte artistica, rituale e religiosa. Queste peculiarità cognitive aprono la strada al soggetto
cosciente di sè, quindi emerge l’individualismo e quelle tendenze dell’agireumano cui genericamente si attribuisce l’attributo
egoistico-egotistico. Il tragico dell’essere umano sta proprio in questo passaggio che implica, di fatto, lo sradicamento da quella comunità che invece gli rende possibile la vita.
Nessun umano potrebbe vivere in solitudine a partire dai primi giorni di vita. Il periodo dell’allattamento e dello svezzamento, vissuto in quasi completa eteronomia, è tra i più lunghi rispetto alle altre specie, proprio perchè ha bisogno di essere accudito strettamente dalla madre o da chi ne fa le veci. Da solo non è in grado di mantenersi in vita. Tutto questo e' stato inesorabilmente scambiato dai filosofi cultori del dualismo per una sorta di paradigma obbligato e quindi all'affermazione di una netta
distinzione tra esterno e interno nella costituzione della coscienza umana e di tutte le sue manifestazioni, e ha dato sempre luoghi a schemi, schemetti, dialettiche campate in aria, di cui forse la esternazione piu' nociva e' stata quella di una sorta di coniugazione tra Hegel e Marx che si rifannno entrambi ai principi di societa' bottegaie fondate sul denaro e con un unico valore, il valore di scambio nel commercio e nell'economia (leggi sopratutto la societa'anglosassone con il passaggio di testimone nella societa' statunitense, secondo i parametri lucidamente individuati dal filosofo e geofisico tedesco Carl Schmitt nel suo saggio Terra e Mare del 1942

IL CAPOVOLGIMENTO DEL FUTURO ANTERIORE

il Wall Street Journal ha riportato un rapporto del governo Usa dove si afferma che "GLI STATI UNITI STANNO CAPOVOLGENDO LA STORIA, ...