venerdì 28 gennaio 2022

NAPOLEONE ? SOLO UN BLUFF E UN PALLONE GONFIATO!

Questo è un saggetto che mi è stato solleticato dal ritrovamento di un vecchio libro di uno storico italiano Gugliemo Ferrero, non troppo conosciuto in quanto essendo antifascista e esule in vari Paesi, non è stato in Italia oggetto di capillare diffusione e attenzione;  diciamo “peccato” perché siamo in presenza di uno storico vero e molto originale, oggetto di grandi riscontri,  ma giustappunto non in territorio nazionale, ma nei numerosi Paesi in cui è stato esule ed ospite (Svizzera, Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti)                                    Il libro in questione  è del 1936 pubblicato in Svizzera,  si chiama "Avventura" e  tratta del prepotente ingresso nella storia del giovane generale Napoleone Bonaparte con la campagna d’Italia del 1796/97: la novità e anche,  diciamolo, lo sconvolgente sotteso alla trattazione, è l’assunto, che viene trattato in maniera ineccepibile, con tanto di riscontri storici, di fonti e documenti che tale folgorante  ascesa non sia stata affatto dovuta a quel genio militare universalmente attribuito al personaggio e neppure a quella sorta di “hoc erat in votis” che trascende i dettami della storia, ma a tutta una serie di circostanze tra il fortuito e il fortunoso, ma anche un tantino al programmato, che fa sì di individuare  un contesto preordinato e ben incanalato nei dettami di una precisa strategia sociale.  Le verità storiche  come quelle scientifiche  sono sempre relative e la campagna d’Italia del 1796/97 è stata universalmente considerata dagli storici come innesto della più straordinaria avventura del personaggio che l’aveva condotta, quel personaggio che 10 anni dopo, all’indomani della battaglia di Jena,  farà  scomodare  un  filosofo come Hegel  sceso in strada  per  veder passare sul suo immacolato cavallo bianco “lo spirito della storia.  E’ da più di due secoli    appunto  che si racconta che la Campagna d’Italia fu il parto del solo cervello geniale di Bonaparte, e che solo lui avrebbe potuto avviare un simile sconvolgimento, ma analizzando spassionatamente i fatti l’autore perviene alla constatazione che non è affatto così:  in effetti, specie nella prima parte della campagna non si ravvede alcuna variazione rispetto al piano studiato dal Direttorio per i compiti dell’Armata - va notato difatti, che all’incirca  dalla meta’ dell’anno precedente all’assunzione del comando dell’armata di Bonaparte , il Direttorio in collaborazione con il Comitato Topografico Militare e una serie di giovani Generali, di cui tra l’altro  faceva parte il ventiseienne  Generale di Divisione Napoleone Bonaparte, aveva elaborato un piano d’azione sia tattico che strategico  per la non troppo considerata Armata d’Italia. Sotto il profilo tattico il primo obiettivo doveva essere la città e fortezza di Ceva che doveva essere attaccata  da due lati delle forze d’Armata, la prima lungo il Tanaro, la seconda  da Savona, per poi proseguire nella direttiva di separare le forze austriache da quelle piemontesi e procedere verso la Lombardia. Le linee strategiche per l’Armata del Piano del Direttorio, però non riposavano in Italia, ma prevedevano l’invasione della Germania  attraverso l’Italia,  e Napoleone come si e’ detto, faceva parte del gruppo di Generali che aveva ideato tale piano in un periodo in cui non aveva ancora alcuna idea che sarebbe stato proprio lui quello  che sarebbe stato incaricato di  dargli  fattualità.  Questo punto è di capitale importanza nel ragionamento che stiamo seguendo :  dove è che finisce la storia e dove è che comincia il mito???? perché in effetti  siamo in presenza della nascita di un  Mito, anzi a tutti gli effetti il più inossidabile mito dell’era moderna, un’era nata appunto come Rivoluzione delle macchine che aveva avuto in precedenza  qualche prodromo di personalizzazione ( Federico II di Prussia, qualche musicista, tipo Mozart, Beethoven o filosofo d’eccezione tipo Kant, un artista di spicco) , ma che troverà in questo piccolo insignificante uomo, che in altri periodi, se non avesse incappato in una serie di sconvolgimenti sociali del calibro della Rivoluzione Francese, sarebbe rimasto un oscuro ufficialetto gratificato al massimo del grado di Maggiore. E’ notorio come praticamente tutti,  anche coloro che non lo avevano particolarmente amato (il manzoniano “vergin di servo encomio e di codardo oltraggio”) finissero per esaltarlo, appuntandosi anche su particolari non troppo dissimili dal conformarsi delle nuvole ad una apparente madonna in cielo, per uno stuolo di fanatici e suggestionabilissimi religiosi : nel 1840 quando in una giornata invernale nuvolosa e uggiosa fu traslata la salma dell’Imperatore da sant’Elena per essere tumulata nella Chiesa des Invalides, ecco che all’improvviso uno splendente sole sbucò dalle nubi per illuminare il feretro e le ali di folla che l’accompagnavano lungo les Champs Elysees, e simultaneamente si levò dalle folla un grido che squarciò il silenzio …“LE SOLEIL D’AUSTERLIZ !!!!!” e come d’incanto ritornare la magia dell’Impero, dei bollettini delle battaglie, i gagliardetti, le insegne, le fiammanti uniformi della Vecchia Guardia.  Per spiegare tutto questo, cogliendolo proprio dal suo inizio, l’autore del libro “Avventura” Ferrero, parla appunto di un non meglio precisato “spirito di avventura” una sorta di smania che fa da correlato nel genere umano specie da quando il suo baricentro si è spostato dall’interno di se’ stesso  ad un qualcosa di esterno:  la macchina:  il prodotto della cosidetta rivoluzione industriale : e’ un smania che sostituisce la ripetitività , la routine,  cui lo spostamento di indice referenziale appunto dall’interno all’esterno di se’, in una protesi di tutte le sue capacità, della sua stessa essenza spinge l’umanità, da una parte con impazienza, ma dall’altra con riluttanza, a uscire dal momento presente, per andare a cercare qualcos’altro in un altro tempo in un altro spazio, che appartiene non più alla realtà, ma all’immaginazione; non è un tempo presente, ma non è neppure un tempo passato, ne’ tanto meno un tempo futuro in una semplice modalità desiderante: è un altro tempo, non semplice, ma composto e molto più complesso, un tempo che può trovare applicazione in un mondo matematico di perlomeno cent’anni antecedente alla Rivoluzione Industriale, che due grandi studiosi avocarono a loro ideazione : il calcolo infinitesimale: ovvero andare a definire quel particolare “punto/momento/emozione” in cui uno stato si trasforma in flusso, un cambiamento che compatibilmente al suo far parte di tutto l’insieme dei numeri complessi, ne comporta anche l’impiego del sottoinsieme dei numeri immaginari, ovvero proiezioni di numeri negativi. Lo spazio/tempo e flusso ecco che diviene quel “sarà stato “ ovvero una modalità trascorsa e nel contempo “ri-assunta”, per dar luogo ad un avvenire, che farà leva sugli immaginari, tutti gli immaginari possibili, dove la realtà si piega alla fantasia e anche alla manipolazione, abbisognando non solo del calcolo infinitesimale e di tutto l’insieme dei numeri complessi, ma altresi’ della capacità di persuasione della nuova grande arma della Rivoluzione Industriale : la stampa! ovvero  i mezzi di informazione, tutto quello che più tardi verrà denominato “Mass media” La tesi del libro di Ferrero che assume un che di inquietante nella correlazione con quanto sta accadendo oggi, non nomina il calcolo infinitesimale, né le derivate complesse che impiegano anche numeri immaginari, ovvero proiezioni di negativi -1, -2, -3, -n, con i quali si intende quella mancanza, debito, carenza , etc, che proprio grazie alla proiezione assolve ad una funzione di compensazione più che verosimile, così come non nomina la fondamentale differenza tra Leibniz e Newton proprio su tale calcolo infinitesimale, laddove per il primo i fenomeni e la stessa essenza umana erano ascrivibili ad una una sorta di “forza viva” (vis viva ) che ha più a che fare con la reazione e in qualche modo il tentativo di padroneggiare il cambiamento epocale dell’introduzione della macchina, da parte dell’uomo e ingenererà quella reazione alla massificazione rappresentata dall’Illuminismo, mentre il secondo, che era più fisico e meno filosofo, tendeva a stabilire relazioni di grandezza e velocità tra uno o più punti, che lui chiamava flussioni, e dal cui calcolo, di tali “flussioni” che poi vennero chiamate “derivate”.  Si può prendere l’antefatto della piena riuscita di quel cambiamento di soggetto referenziale di essenza del mondo, che la Rivoluzione Industriale realizzerà tra uomo e macchina, ovvero si tratta a ben vedere per entrambi di maneggiare un infinito potenziale, ma per ognuno dei due ecco che si prestava a individuare un potenziale infinito interno o un potenziale infinito esterno, ognuno con una sua particolare inclinazione e che in correlazione coi grossi cambiamenti che la Rivoluzione Industriale stava ingenerando, produrrà immediatamente degli effetti di significazione : da una parte quella di Leibniz, che è come si è fatto cenno, può ascrivervi tutto il movimento filosofico dell’Illuminismo (il secolo dei lumi) dall’altra quella di Newton che rappresenta invece quel meccanicismo che riuscirà compiutamente a trasferire l’indice di riferimento generale di essere al mondo dall’uomo alla macchina, ovvero dall’interno di sé, all’esterno di se’.  Ora come è noto, la storia scientifica ha deciso a favore del secondo , superando con relativa facilità la stimolante idea dell’Illuminismo, eppure intorno all'inizio del XX secolo cioè piu' di trecento anni dopo, la teoria della relatività di Einstein afferma che in ogni oggetto materiale c'è una energia intrinseca che dipende dalla sua massa e dal quadrato della velocita' della luce, la celeberrima formula E = mc2…. sembrerebbe quindi che Leibniz abbia intuito e prefigurato la teoria della relatività, con la sua "vis viva" alla quale aveva dato un indice mv2, ovvero massa per il quadrato della velocità identificandola appunto come energia vitale comune a tutti i corpi materiali e spirituali ; e non è solo Einstein che Liebniz con questa sua intuizione di forza univoca di spirito e materia, appunto questa vis viva, ha anticipato, ma tutte le formulazione della Fisica Quantistica, da Maxwell a Bohr a Heisenberg , Scrhodinger , Bell, Dirac , Feynman etc. introducendo quindi nella fisica teoretica un qualcosa che mai e poi mai sarebbe stato concepibile con Newton, ovvero che la psiche umana, non solo la coscienza ma anche un inconscio, si proprio quello scoperto per indizi di significazione da Freud, abbia una parte fondamentale nella comprensione delle problematiche relative all'osservazione dei fenomeni quantistici stabilendo una interazione tra chi osserva e ciò che viene osservato. Qual è la tesi del presente scritto, dedotta dal saggio citato ? Che gli storici, o meglio i cronachisti francesi di quel biennio 1796/97 abbiano di proposito utilizzato il calcolo infinitesimale di Leibniz, con tanto di derivate costituite da numeri immaginari (nel senso di proiezioni di numeri negativi ) integrando quella leibniziana “Vis viva” con il generico “spirito di avventura” che l’autore del saggio poneva a generico e irrazionale motore del movimento e cambiamento dei concreti eventi e fatti reali? Quasi casualmente o perlomeno sul concorso di varie circostanze fortuite, questo tipo di calcolo tra il reale e l’immaginario, si sarebbe andato appuntando su di un singolo personaggio, neppure troppo dissimile da altri: un giovane generale, quando la giovane età era più una norma che un’eccezione tra i quadri militari venuti a formarsi con la rivoluzione, con al suo attivo un’efficace operazione di polizia(la repressione di una insurrezione realista alla Chiesa di san Rocco), e la fama di essere abbastanza esperto di movimenti di artiglieria (4 anni prima nella presa di Tolone e del forte dell’Eguilette), ma sopratutto la riconoscenza di uno dei più influenti membri del Direttorio Paul Barras del quale sposandone la ingombrante amante Josephine De Beauharnais gli aveva tolto una enorme preoccupazione e ne aveva avuto, da questi proprio il giorno del matrimonio 2 marzo 1796, un eccezionale regalo di nozze: il comando dell’Armee’ d’Italie. Ora francamente non ce li vedo i compilatori delle cronache rivoluzionarie nelle vesti di “piccoli Leibniz”, ma il punto è che determinate scoperte finiscono per entrare nelle menti delle persone, così del tutto impercettibilmente, e anche i più astrusi ragionamenti matematici finiscono per entrare a far parte delle sensibilità delle genti; così quella generica sostituzione di paradigma referenziale tra l’uomo e la macchina che aveva già prodotto la reazione intellettuale dell’illuminismo e quella della violenza sanguinaria della rivoluzione francese, andava sempre più abbisognando di una razionalizzazione che chiedeva urgentemente un salto di fantasia, non più per un intero collettivo, ma per un singolo che potesse rappresentare l’esigenza di novità forzando i dettami di una realtà che abbisognava che si conformasse a parametri di eccezionalità, di quasi totale contrasto tra reale e immaginario. Proprio come una macchina, i cui pezzi si possono cambiare, sostituire, riassemblare, anche l’uomo, questo Homo novus non più rappresentante della sua essenza, ma di volta in volta espropriato a favore di una sua continua riproposizione, deve conformarsi alle stesse esigenze ed è parimenti importantissimo, anzi fondamentale, che tali peculiarità vengano rese ben evidenti, palesate, continuamente, ostentate: nasce dall’immaginario, la pubblicità dell’uomo e della sua azione, del tutto simile a quella di un qualsiasi altro prodotto : l’uomo diventa equiparabile non solo ad una macchina, ma anche ad una merce. Tutto si costruisce, tutto si cambia, tutto si vende e tutto si compra. Napoleone Bonaparte è in tal senso una sorta di prototipo: le sue peculiarità sono da manuale: piuttosto oscuro, venuto dal nulla, poca distinzione, persino un fisico non aitante , di bassa statura, e caratterialità ombrosa, di converso però una fortissima  disponibilità al compromesso, ambizione sfrenata, pochi scrupoli, nessuna preoccupazione del futuro, ma tutto orientato al successo immediato, ecco la quintessenza di quel che serve in tempi come quello di post rivoluzione per porre una fine costruita, diremmo oggi virtuale e non reale ad un qualcosa che deve essere ricondotta nei dettami della normale produzione. Nasce la pubblicità e nasce altresì la spettacolarizzazione di un evento che l’uomo deve interpretare come un attore interpreta una parte ed ecco difatti che con la Rivoluzione industriale cominciano a delinearsi oltre questa figura, diciamo così incanalante, anche tutta una serie di altre figure che lo sostengano : scrittori, giornalisti, biografi, estimatori, ma anche oppositori e critici, e vere e proprie entità, tipo i cosidetti mass media. Benvenuti nella nostra era moderna e benvenuti anche in quest’era contemporanea che però con l’esasperazione di alcuni suoi meccanismi ha portato al parossismo il meccanismo del calcolo infinitesimale di Leibniz , dove non possiamo più parlare di “vis viva” ma di totale controllo da parte delle  classi dominanti  e quindi un reiterato attacco alla Libertà individuale , attacco che avrà di volta in volta le peculiarità di maggiore controllo delle masse attraverso  il meccanismo  della falsificazione e della mistificazione e vieppiù quello di un continuo stato di paura, cui la stragrande maggioranza delle masse va mantenuta : paura che un tempo poteva essere mantenuta con un impianto di punizione divina, ma che ora abbisogna di un qualcosa di più riscontrabile anche se con i medesimi meccanismi di astrazione e di  definizione : uno stato di salute continuamente compromesso dall’emergere di quel fantasma della malattia e del contagio cui solo l’affidamento ad un qualcuno che si avoca la responsabilità di gestirlo ne potrà assicurare la cura e la guarigione; ne sono manifestazioni : l’eccessivo scollo tra realtà e immaginazione, un consumismo sfrenato con mercimonio dilagante, personaggi sempre più mediocri che cercano di avocarsi le caratteristiche che un tempo erano peculiarità di uno solo o pochissimi, democratizzazione delle derivate immaginarie, tentativi di superamento del confine tra reale e immaginario con fini di asservimento della maggioranza della popolazione ai dettami di pochissimi, come stiamo in questo preciso momento subendo (2020) e i cui tratti ispiratori non riposano nella realtà, ma nella letteratura fantascientifica di tipo apocalittico alla Orwell, alla Huxley,alla Breadbury . E’ sul principio del “recitare una parte” che è  importante realizzare la ricostruzione tutta virtuale di un personaggio fuori le righe, costruito a bella posta con tratti  quasi sovraumani,  ma opportunamente scelto  dalla compagine meno rappresentativa della Società, sicchè ognuno nel suo uniformarsi a questi ne avrà per così dire quasi un ritorno in termini di possibilità : una democratizzazione  dell’eccezione , i 5 minuti di celebrità di cui tutti secondo Andy Wharol hanno diritto, in questa nostra era di ipercapitalismo, di sfrenato  consumismo,  dove all’era delle macchine è subentrata l’era delle macchine informatiche e digitali;  non più il braccio, le mani,  il corpo, la fatica fisica, ma lo stesso pensiero umano, la mente, divengono l’oggetto dell’espropriazione. L’operazione  ha una origine, una prima volta e seguiamo lo storico Guglielmo Ferrero  che ci fa appropinquare a quel marzo 1796 in cui il Generale Napoleone Bonaparte, con quel po’ po’ di regalo di nozze  del comando dell’Armata di Italia,  giunge  alla tenda del comando  a Nizza , ricevuto dai tre generali che fino a quel momento si erano divisi il comando delle operazioni , tre generali di molta più esperienza della sua : il savoiardo Andrè Massena 43 anni ex sottufficiale dell’esercito savoiardo , alto aitante, volitivo, salito velocemente di ruolo e di grado con la rivoluzione e all’attivo parecchi fatti d’arme che lo gratificavano già allora dell’epiteto di “Invincible”,  il Gen Charles Pierre Augereaux  39 anni di Parigi nato nella popolare strada di rue Mouffetard a Parigi,  ex soldato ed ex disertore per aver ucciso in duello un ufficiale, soldato di ventura di vari Regni, tra cui anche quello dei Borboni napoletani,  era ritornato a Parigi durante a Rivoluzione e si era arruolato come Sergente nella Guardia Nazionale per poi salire velocemente i gradi di ufficiale dell’esercito nella repressione della rivolta della Vandea e venir nominato Generale a 36 anni, il Gen. Jean Mathieu Philibert Serurier  54 anni , l’unico proveniente da una regolare carriera militare di ufficiale,  essendo di  provenienza dalla piccola nobiltà:  aveva partecipato alla guerra dei 7 anni e a campagne in Hannover e Portogallo, oltre ad aver preso parte ad operazioni contro Pasquale Poli in Corsica, l’idolo di gioventù di Napoleone; all’inizio della Rivoluzione aveva il grado di Maggiore e nel ‘93 veniva promosso Generale:  piu’ che un combattente indomito e di pronta azione come i suoi due precedenti colleghi  era per il suo stesso curriculum, diciamo così “tradizionale” , uno dei maggiori esperti della teoria  di Guibert  un ufficiale che non aveva fatto a tempo a veder applicate le sue  concezioni su di un nuovo modo di condurre le guerre essendo morto nel 1790 a 47 anni, ma che un certo scalpore aveva ingenerato in tutti i comandanti ante rivoluzione con un suo libello  del 1773 titolato “Saggio generale di tattica”  laddove opponeva la snellezza e la velocità delle armate alla loro massa  e quindi penalizzava la formazione di carriaggi, salmerie, magazzini, a favore dell’adozione di  reparti agili, mobilissimi e soprattutto che traessero dai territori da loro via via occupati, gli elementi del loro sostentamento, un po’ come le famose compagnie di ventura dei secoli addietro, facendo insomma  ritorno al principio della razzia. Va notato che queste idee furono già all’epoca della pubblicazione del saggio  prese nella dovuta considerazione : Caterina di Russia invio’ il trentenne autore del saggio in Russia e Federico il Grande volle conoscerlo personalmente.Doveva essere però quello spirito innovativo della Rivoluzione Francese a ispirarsi massimamente ai principi della teoria di Guibert, quello spirito cominciato a realizzarsi con la famosa “cannonata di Valmy” di appena due anni posteriore alla morte dell’autore e giustappunto Serurier era in quanto ufficiale regolare, uno dei più esperti ed entusiasti seguaci di  tali  teorie , cosa questa,  come vedremo fin dagli inizi della campagna d’Italia, che tornerà utilissima al giovane generale Bonaparte che in tal senso e, in questo si rivelererà il classico allievo destinato a superare, e di molto, il maestro.  Tutti e tre  i generali che il Direttorio gli aveva apparecchiato come subalterni erano come si vede dalla esamina delle loro caratteristiche, di gran lunga più esperti e  avevano molti più titoli e capacità  del giovane Generale Corso e difatti lo avevano accolto non propriamente con rispetto, voltandogli  sprezzantemente le spalle, o perlomeno questo è quel che è passato alla storia e che  viene riportato in un film che per molti versi rappresenta una specie di inverazione filmica  del processo di creazione del personaggio:  NAPOLEON :  in tale film difatti molte delle scene paradigmatiche che avevano costruito il mito del generale Nessuno divenuto il generale Meraviglia, sono riportate fedelmente; fedelmente si, ma non alla realtà, bensi’ a quell’immaginario con il quale si sarebbe dato inizio al Mito, non ultima questa scena  appunto dell’ingresso del giovane generale nella tenda comando con i tre sopracitati generali ripresi appunto di spalle.Cosa succede? ecco che si vede Bonaparte  scaraventare la sciabola sul tavolo costringendo i sottoposti a voltarsi e quindi fissarli , uno alla volta diritto negli occhi, fino a imporgli di levarsi il cappello. Siamo nella quintessenza di quando un film che dovrebbe interpretare la storia si fa esso stesso storia: Napoleon  di Abel Gance che doveva consegnare alla Settima Arte la ratifica di un Mito così come era pervenuto da quel meccanismo di esaltazione  messo in evidenza dallo storico Guglielmo Ferrero, è forse il  film  più mancato della storia del cinema, difatti, essendo tale film del 1927, la diffusione del sonoro ne bruciò  il colossale potenziale di successo e diffusione: forse proprio a causa di questo mancato, in una sua riproposizione  dopo oltre mezzo secolo con uno  scenario di ambientazione quanto mai  caricato da un triplo schermo a  Massenzio, in piena atmosfera di quell’Estate Romana voluta dal sindaco Argan e dell’Assessore, nonchè mio amico personale, Renato Nicolini che mi aveva convocato, conoscendo la mia passione e discreta competenza di cinema, per chiedere un parere su cosa ne pensassi di quel film;  io capirai con la mia sempiterna cultura per il “mancato” mi ero prodotto in un vero e proprio panegirico, tanto più che c’era la concretissima possibilità che venisse a presenziare lo stesso regista Abel Gance, oramai novantenne, che per come erano andate le cose su quel capolavoro per differita, si collocava in pieno in tale spirito. In effetti quel film, Napoleon aveva tutte le peculiarità di quel grande mancato di cui spesso, opere, persone, eventi, addirittura città e civiltà, sembrano venire intessuti. Realizzato con grandissimi mezzi intorno al 1927, doveva oscurare tutti i grandi colossal usciti fino ad allora, era però apparso sugli schermi proprio quando la provocante voce di Al Johnson disse la famosa frase “Signori non avete ancora sentito nulla!”.  Lo disse Groucho Marx “un film è assai meglio della realtà” , così era anche quel film, per concezione, ampiezza di vedute, tecnica cinematografia con dissolvenze incrociate, carrellate fantasmagoriche, effetti di fotografia, uso di viraggi in relazione alle scene.. “pensa” avevo detto a Renato Nicolini “ che non è affatto vero che Exstasi con Hedy Lamar è stato il primo film dove si vede un seno nudo di donna, nella grande festa del ballo per la fine del “terrore” di Robespierre e Sain-Just, c’è una scena di ballerine che danzano tutte allegramente a busto scoperto. Ora Abel Gance novantenne era lì in prima fila, nelle poltrone di Massenzio, omaggiato da tutte le autorità e anche dal sottoscritto, che era in fibrillazione nello stringere la mano ad un simile “campione” del mancato, questa volta non tanto alla storia, quanto allo spettacolo, ma, che questa volta, la realtà gli aveva dato la sua rivincita. L’entusiasmo del pubblico alla rappresentazione, i tre schermi con i riflettori che sul finale dividevano la luce nei colori della bandiera francese, manco a dirlo con la musica della “Marseillese”, furono qualcosa di epocale, in quella splendida notte romana. Lo vedi che strano, la realtà a volte concede qualche rivincita, ho detto sempre che forse noi sulle generali viviamo un po’ troppo e che per lo più siamo destinati ad essere superati dalle cose del mondo, ma di certo il vecchio Abel Gance quella sera non sarebbe stato del mio stesso avviso, glielo si leggeva negli occhi di vegliardo, dove si intravedeva il lampo dell’orgoglio di aver fatto un qualcosa che, d’accordo , il botteghino e quindi lo spettacolo in genere, aveva condannato come fallimento, ma non all’oblio. Lo ripeto fino a pochissimo tempo fa nessuno mi avrebbe convinto del contrario, il film che in quel fantasmagorico scenario ci  incollò tutti a fronte di quel triplice schermo, ove come un fantasma aleggiava  in una sorta di dissolvenza tra realtà e immaginario  la veneranda figura de suo autore, in poltrona d’onore lì nella rappresentazione,  ma anche  ben dentro l’immagine filmica  nella accattivante parte che si era scelto del  terribile “angelo della morte”Louis Antoine de Saint Just. L’attore che impersonava Napoleone nel film, Albert Dieudonnè  era perfetto nella parte, si ma quale parte? quella che la storia ha voluto tramandarci, ma non certo quella che la realtà dove un ubbidientissimo  giovane generale  praticamente con un quasi nullo curriculum  si accingeva goffo ed impacciato a recitare appunto la parte di esecutore di un piano che aveva ben altri ideatori e di certo  del tutto inconsapevole di quello che un melange di caso, necessità, piaggeria e anche fortuna gli stava apparecchiando, e che magari qualcuno avrebbe chiamato storia;  a pensarci bene è sempre un pò così! non è forse vero che siamo sempre costantemente superati dagli eventi che dobbiamo vivere?, la nostra stessa struttura anatomica è congegnata di tal fatta, abbiamo gambe per camminare e alla bisogna, correre, verso dove? verso qualcosa, braccia per cogliere…mani per afferrare e un cervello per pensare…prima: pro-tendersi, pro-gettare, pro-porre…. tutto quel benedetto “pro” che guarda un pò è giusto il prefisso del nome di quello che ci ha fatto questo regalino: il mitico Prometeo, dove quel “pro” è unito alla forma “methes” del verbo “mantano” = io penso: e quindi Prometeo è “colui che pensa prima”,  in anticipo, proprio come cerchiamo di fare noi. Eh già, ma su cosa è fondato tutto questo “pro”? su di un furto! un furto agli dei, che permalosi come sono non l’hanno presa per niente bene, e a parte i risvolti più o meno truculenti verso l’autore di quel furto (roccia del Caucaso, catene, aquila che rode il fegato) e anche verso di noi (il taglio che separa l’essere umano, prima “amphiteroi in due parti distinte (dia-boliche) blandamente spinte dal dio Eros alla ricongiunzione (simbolica), hanno fatto in maniera che noi fossimo appunto costantemente superati dalle cose che desideriamo; per questo forse i latini hanno coniato la parola desiderio (de sidera) ovvero essere intorno, dalle parti, nei pressi, nei paraggi di dove dimorano le stelle che non sono affatto fisse, anzi per il solo dato di presentarsi alla nostra vista, esse debbono essere già estinte da milioni di anni. Paradossale dunque che il vecchio Abel Gance abbia avuto il suo “successo” cinquanta  e passa anni dopo, ma anche paradossale che noi comuni mortali siamo sempre lì a combattere con le cose del mondo e l’unico modo per impadronircene veramente è forse quello del ri-assumerle, non nella realtà , ma in una sorta di immaginario, dove, come la riedizione di Napoleon a Massenzio, quello che conta, non è come siano andate veramente le cose, ma come le reinterpretiamo noi, come ri-mettiamo il tutto insieme , ovvero con una operazione “simbolica”  Ordunque a parte le scene della tenda con la sciabola sbattuta sul tavolo e probabilmente anche il famoso discorso , ben illustrato nel film,  che il nuovo Generale tenne alle truppe “ soldati siete laceri e   malnutriti. Il governo vi deve molto, e non può darvi niente. La vostra pazienza, il coraggio che mostrate in mezzo a queste rocce, sono ammirevoli, ma non vi daranno la gloria …. Io voglio condurvi nelle più fertili pianure del mondo. Ricche province, grandi città saranno in vostro potere. Vi troverete onore, gloria e ricchezze. Soldati d’Italia, mancherete dunque di coraggio e determinazione?»,  cosa fa il nuovo Generale  appena arrivato?  esegue alla lettera il Piano che il Direttorio aveva  ricalcato sulle Memoire de l’armeè D’Italie,  redatto l’anno precedente, dal gruppo di giovani generali di cui anche lui aveva fatto parte, uno dei tanti, non certamente il più importante , soprattutto non quello che sarebbe stato destinato a eseguirlo. e Napoleone esegue alla lettera le disposizioni ,  fissa il suo Quartier Generale d Albenga ed comincia col volgere la sua attenzione a Ceva, primo obiettivo posto appunto dal Piano e la riprova è data dal suo recarsi  il 9 aprile 1796 nella Valle del Tanaro per parlare con Serurier che comandava quel settore, neppure prendendo  in considerazione una offensiva dalla parte di Montenotte, dove si badi bene sarà trascinato a reagire non operando da attaccante, ma da attaccato: attaccato  dall’ala sinistra dell’esercito austriaco che riusciva a sorprendere i francesi conseguendo alcuni vantaggi territoriali in direzione  del colle di Cadibona e Savona: così crolla uno dei miti più inossidabile della aurea napoleonica: che lui sia arrivato e paffete come d’incanto successi a ripetizione : Dego, Millesimo, Cairo Montenotte. In verità furono gli Austriaci a dare inizio alla Campagna d’Italia in quell’aprile 1796  e le controffensive che  portarono alla vittoria di Cairo Montenotte il 12 di aprile,  furono merito non tanto di Bonaparte quanto  dei Generali Massena e Leharpe che erano accorsi prontamente. Altro particolare spesso sorvolato dagli storici, specie quelli meno approfonditi e anche il nostro famoso film Napoleon, (che su queste prima battaglie della campagna d’Italia, chiude  la sua visione, facendo aleggiare sullo schermo tricolore, lì a Massenzio, un’aquila volteggiante a simbolo della gloria , lasciando intendere di voler continuare la narrazione in una parte successiva) , fu che  subito dopo la vittoria di Cairo Montenotte, Napoleone ritornò al piano originario del Direttorio, ovvero l’attacco di Ceva e quindi lasciò  lo scontro cogli austriaci per preferenziare quello coi Piemontesi, fu addirittura ipotizzato che Bonaparte disubbidì al Direttorio  nel non continuare lo scontro verso gli austriaci, ma è una di quelle, diremmo oggi “fake news”, da manuale : il Direttorio  non aveva mai ordinato a Bonaparte di inseguire gli Austriaci  ed anzi aveva tassativamente ordinato di non fare alcun movimento se non prima di aver occupato Ceva. Nei giorni seguenti Napoleone  operò contro i due eserciti,  quello austriaco che era stato sconfitto a Cairo Montenotte e quello piemontese che presidiava Ceva e la valle del Tanaro, su più direzioni;  nei combattimenti un po’ altalenanti di Dego, Millesimo, dove alla fine i francesi finirono  per avere la meglio e solo quando fu  tranquillo rispetto agli austriaci, il 16 aprile  si girò  verso Ceva prendendola d’assalto, ma venendo sanguinosamente respinto . Ora va sottolineato come tale ultima operazione, appunto l’occupazione della fortezza  di Ceva, ha sempre fatto storcere il naso agli storici, specie quelli agiografici di Napoleone:  difatti attaccare di petto un campo trincerato, anche se era espressamente e tassativamente stabilito dal Piano del Direttorio, non è propriamente una di quelle azioni che un buon generale, figuriamoci Napoleone, farebbe mai, per cui tutti si sono chiesti  come sarebbero andate le cose, se il giorno seguente Colli il comandante in capo dell’esercito piemontese  avesse difeso la citta’? Cosa aveva portato Colli ad abbandonare il campo trincerato ed evacuare a cittadina  lasciandovi solo una piccola guarnigione che sarebbe capitolata pochi giorni dopo, facendo di fatto i francesi padroni del campo senza ferire??? Ecco qui si entra in un campo appunto dove storia e fortuna si confondono, ma anche lasciano uno spiraglio di “altra” eventualità  che forse risente di fattori che nessun piano precostituito può prevedere. Fortunissima ovviamente per il giovane Generale che si trova questo inaspettato regalo e per la prima volta era andato  parzialmente  contro le direttive di Parigi non rimanendo a Ceva, ma inseguendo il nemico. Il punto è che alcuni documenti ritrovati anni dopo, mostrano che le direttive del Piano del Direttorio non erano poi così assolute, si legge difatti in una di queste “Istruttorie”: “ il Direttorio  lascia al Generale in capo la libertà  di dirigere le operazioni sia che ottenga vittoria completa, sia che il nemico si ritiri verso Torino e l’autorizza a dar ancora battaglia, fino a bombardare la capitale,  se le circostanze rendessero questa azione necessaria “. Come dice giustamente Ferrero si ravvede il linguaggio ovattato del Direttorio, ovvero non ordinare mai, non imporre alcunché, ma sempre proporre, suggerire, consigliare, spingere cioè il generale ad ardire, ma senza forzarlo si dal non rimanere coinvolto in una sconfitta, sconfitta che 2 giorni dopo il 19 aprile doveva puntualmente arrivare in una forte posizione che proteggeva la ritirata delle truppe di Colli, quella di San Michele;  nessuno, o quasi,  ha mai sentito nominare questa battuta d’arresto nella trionfale marcia dell’Armeè d’Italie e del suo giovane generale, che pure fu  addirittura più grave di quella di Ceva,  tanto da costringere il Bonaparte a convocare il Consiglio di guerra. Però a questo punto, la riesamina dei fatti puramente militari:  vittorie, sconfitte, assalti, inseguimenti , battute d’arresto, deve caricarsi di qualche altra valenza ed  andare un po’ più a fondo di quella  generica indicazione di fortuna che starebbe lì a fare da rimpiattino tra caso e necessità. Come mai Colli comandante dell’esercito piemontese si comportò in maniera così contraddittoria:  respinge il nemico, lo vince addirittura, ma non ne approfitta, anzi si ritira, abbandona campi trincerati e però si assicura la ritirata sempre rintuzzando gli attacchi, come successe ancora il 21 aprile a Mondovì vicinissimo Torino;  d’accordo questa volta le cose andarono un po’ meglio pei Francesi, ma questo non impedi’ comunque a Colli e all’esercito di raggiungere Cherasco il 24, giusto ove dopo velocissimi preliminari, il 28 aprile la corte sabauda di Torino,  avviava i preliminari di un armistizio per negoziare una pace separata con la Francia, il tutto con  l’esercito austriaco appena  a due giorni di marcia da tale cittadina. Cosa c’è dietro questo contraddittorio comportamento  dei Piemontesi, del suo esercito e generale in capo, e del suo Re? Ripetiamo che gli storici specie quelli di marca napoleonica, quelli che come il nostro regista Gance, hanno contribuito a diffondere il mito del generale infallibile, vero grande genio sia tattico che strategico, l’unico dell’era moderna paragonabile ad un  Cesare, ad un Mario, ad uno Scipione, ad un Alessandro, sono sempre stati particolarmente imbarazzati nel descrivere le fasi di questa improvvisa richiesta di armistizio da parte del Regno di Sardegna ad una Francia la cui Armata non ne aveva mai seriamente impegnato le sue truppe: Colli non era mai stato battuto in campo aperto, il suo esercito non era affatto disfatto e neppure  era stanchissimo come i manuali di storia oramai riportano con quasi   litania;  anzi se vogliamo essere franchi, erano i francesi ad essere molto più stanchi. Si deduce quindi che la Corte di Torino non chiese la pace perché non poteva, ma semplicemente perché  non  voleva più, combattere. Politica non strategia. In verità se si va un po’ più sul profondo si evince che quell’alleanza con l’Austria al Regno di Sardegna non era andata mai giù, fin dalla sua stipulazione nel dicembre 1795: i motivi che l’avevano  indotta erano sul proseguo della coalizione contro la Francia rivoluzionaria che giustappunto in quel periodo  era in procinto di attaccare in Italia con la sua Armata apposita, anche se in verità con un compito di solo passaggio per prendere alle spalle la Germania e congiungersi colle truppe impegnate sul grande fronte austro-tedesco, che erano sotto il comando del Gen. Moreau un Generale di grande esperienza e con un notevole curriculum di battaglie e vittorie, non certo uno sconosciuto novellino come Bonaparte. L’arrivo in Piemonte di un contigente austriaco di 10.000 uomini comandate dal Gen Banlieu era stato quindi visto a Torino  come un protezione dalle mire francesi, ma quando questi aveva attaccato appena pochi giorni dopo l’arrivo del nuovo comandante appunto il Gen.Bonaparte, (ecco una cosa che troppo spesso non viene sottolineata adeguatamente: non fu Napoleone a iniziare la campagna d’Italia, sul proseguo, magari del famoso discorso alle truppe  del “siete laceri e mal nutriti” ma furono gli Austriaci, Austriaci che col loro Generale Banlieu, dopo una serie di scaramucce di poca importanza, furono duramente battuti  “a Cairo Montenotte, come abbiamo visto,  più dal Gen. Massena e dal suo diretto sottoposo gen Leharpe che da Bonaparte in persona. Ebbene dopo questa battaglia, la fiducia  nell’alleato era decisamente crollata alla Corte di Torino, tanto da dare disposizioni a Colli il comandante dell’esercito savoiardo  di non difendere Ceva e intraprendere piuttosto una ritirata strategica per riportare le truppe verso Cherasco, dove la diplomazia stava già  ordendo un armistizio separato con la Francia.                                                                               Una sola battaglia di una certa entità persa dall’alleato e una ritirata strategica effettuata peraltro magistralmente dal Gen.Colli, tanto erano bastati al Piemonte per chiedere un armistizio e di fatto ritirarsi dalla guerra. Detto per inciso va a anche rilevato che il Bonaparte  per inseguire l’esercito nemico aveva allungato enormemente le sue potenzialità logistiche (riserve, magazzini, salmerie, vettovagliamento, etc)  e quindi l’Armata era davvero in condizioni miserevoli, molto molto di più dei Piemontesi;  ma qui ecco,  siamo in presenza di quell’ineffabile della storia che è la fortuna o forse non si tratta precisamente di fortuna,  laddove anche essa a ben guardare ha sempre una struttura, magari di manipolazione o comunque di costruzione di una parte come a teatro :  fortuna che Colli non contrattaccasse e fortuna anche che Banlieu non approfittasse dello stato dell’Armata francese  per scagliarvisi contro con tutto il suo esercito. Ma siamo proprio sicuri che si tratta di fortuna che  si può più o meno afferrarla e coglierla, così come indicavano i greci antichi introducendo nella congerie degli eventi umani  la figura del  “Kairòs”, che tradotto suona un po’ come “il tempo opportuno “ correlandovi la figura del tiro con l’arco e il raggiungimento del bersaglio da parte della freccia, oppure siamo in presenza  di una struttura un tantino più maliziosa, molto simile a quella che si utilizza mettendo in scena uno spettacolo teatrale, ognuno con la sua parte prestabilita e scevra di eccezioni nel copione scritto?   Possiamo  dire che probabilmente il Generale Bonaparte mostrò fin  dalle prime fasi della campagna d’Italia una delle sue innegabili doti:  recitare una parte, entrarvi dentro e comportarsi di conseguenza, senza mai forzarne i dettami, ma anzi assolvendo detta parte fino alla  piaggeria, senza colpi di testa o altro che avrebbero potuto compromettere la sua posizione nei riguardi del Direttorio il potere di Parigi… va sottolineato un aspetto invero fondamentale: se Massena e altri generali “operativi” più arditi e più determinati gli avevano per così dire “salvato il…..” in operazioni di squisito carattere militare, sarà il terzo dei generali immediatamente subalterni quel Jean Mathieu Philibert Sérurier a fornirgli  il destro (teorico) per far breccia sull’interesse del Direttorio : la teoria del “Saggio” di Guibert. E’ proprio dalla teoria di Guibert di cui, come abbiamo fatto cenno, Serurier era probabilmente il più grande esperto dell’intero esercito francese, che gli ispirò  di servirsi di un organico leggero, agile, senza carriaggi, salmerie, depositi, ma lo portò sopratutto quel fare incetta dei beni  dei territori che andava occupando, ovvero quel vivere “di razzia” tipico delle antiche compagnie di ventura, che lui, questa volta in prima persona e con notevoli caratteristiche di ulteriore sfruttamento,  sviluppò in maniera autonoma e con indubbie peculiarità di originalità: fin da principio difatti non si limito’ a razziare beni di sussistenza, ma comincio’ ad imporre ai vari territori,  gabelle, indennità in denaro e anche confisca di beni e di opere d’arte, aggiungendo così alla questione prettamente militare di una vittoria determinati riscontri di tipo economico che indubbiamente portarono i membri del Direttorio a non andare troppo per il sottile nel determinare la perizia di questa o quella azione militare. Tra l’altro, con il passare dei giorni (invero piuttosto incalzante) il giovane Generale era imbattuto in un’altra fortunosa vittoria, che ha un “topòs” preciso nell’immaginario collettivo dell’epica napoleonica e una precisa sottolineatura da parte di sé stesso : il ponte di Lodi, ovvero lo scontro che ebbe con la retroguardia austriaca  passato alla storia come  battaglia di Lodi del 10 maggio del 1796,  perchè è proprio da questa battaglia, non di fondamentale importanza militare, ma di stratosferica importanza psicologica, si era andato costruendo nell'immaginario collettivo della storia, il Mito della invincibilità napoleonica, entusiasticamente avallato da un punto di vista utilitaristico da  tutto il Direttorio, sempre più abbagliato dal vedersi gratificato di bottini di guerra dai territori conquistati, prontamente e con forte strombazzatura mediatica trsferiti a Parigi con anche il crescente entusiasmo della popolazione.Degno di nota il fatto che che proprio l'interessato ovvero il novello stratega cominciava un po’ ad entrare nella “parte” del generale vincitore “per parte” contribuì non poco alla formazione di questo vero e proprio mito, asserendo nelle sue memorie che in lui la visione della futura grandezza gli derivò appunto da quella battaglia " Fu solo nella serata di Lodi "raccontò nelle sue memorie "che cominciai a ritenermi un uomo superiore e che nutrii l'ambizione di realizzare grandi cose...." insomma una sorta di assai proficua frenesia si impadroni’ di attore, pubblico e anche soprattutto regista, come dicono ancor oggi i francesi “metteur en scene” Difatti il Direttorio, preso atto con gradita sorpresa che le notizie del fronte italiano avevano un favorevolissimo impatto in tutta la Francia, pensò bene di enfatizzare quella scelta, che a parte i sottesi favori, le regalie, ed anche i compromessi risultava esclusivamente propria;  pensò bene, quindi  di enfatizzare la figura del giovane, fino ad un paio di mesi prima completamente sconosciuto Generale, quasi  facendo un ideale eco a quelle impressioni del tutto soggettive del protagonista. Poco importanza aveva il fatto che in verità la battaglia di Lodi era stata in realtà uno scontro vinto contro una retroguardia dell'esercito austriaco comandata dal Gen Sebottendorf, che Beaulieu aveva appunto lasciato di presidio a Lodi. L’agiografia storica e non solo quella napoleonica  si è sempre compiaciuta di mostrare la differenza tra i due Generali  Beaulieu e Bonaparte,  il primo  quasi un vecchio trombone ancorato a regole e condotte di guerra sorpassate  mentre il secondo portatore delle idee nuove dei tempi che di tali regole si facevano beffe, con differenti strategie:   prendendo a motivo   proprio questa occasione in cui il Bonaparte aveva ovviato alla distruzione dei ponti e  alla requisizione di tutte le barche  del tratto di confine con la Lombardia che Beaulieu aveva effettuato per impedirgli di varcare il Po,  aveva invaso il neutrale Ducato di Parma per attraversare il fiume a Piacenza  e trovarsi di fronte quindi a fronte dell’esercito nemico. Ma anche questa è più leggenda che storia o perlomeno una gonfiatura:  difatti   Beaulieu dopo l’armistizio di Cherasco e la defezione del Piemonte, non aveva nessuna intenzione di accettare una battaglia campale con l’Armata  Francese, anche perché questa proprio in virtù della “messa in scena” che stava cominciando ad ordirsi del generale invincibile,  aveva  ricevuti notevoli rinforzi di uomini e materiali ed era in netta superiorità numerica: la verità è che Bealieu stava effettuando una perfetta ritirata strategica e per farla, ponendo il grosso del suo esercito al sicuro oltre l’Adda, aveva anche usato lo stesso stratagemma utilizzato dal suo più giovane antagonista: invadere uno Stato neutrale, nella fattispecie la Repubblica di Venezia. Quindi neppure quella di un nuovo modo di fare  le guerra secondo lo spirito della Rivoluzione,  ispirato come abbiamo visto alla teoria del Saggio di Guibert, che se ne irrideva di tutte le regole della guerra del XVIII secolo,  era una verità, tant’è che proprio un Generale di quella vecchia scuola l’aveva utilizzata senza problemi. La verità è che Napoleone fece mostra di una sorta di abbaglio, che tendera’ spesso a ripetere  e che già di per sé inficia quella nomea di grande stratega e generale invincibile che contemporanei e posteri gli hanno attribuita : non valutare con esattezza l’entità delle forze nemiche:  qui a Lodi si tratto’ di una sopravvalutazione,  ovvero scambiò una retroguardia per l’intero esercito nemico, a Marengo quattro anni dopo, si ebbe il netto contrario:  scambio’ l’intero esercito austriaco per una retroguardia. Ora, se nel primo caso lo sbaglio fu facilmente riparato ed anzi si potè, anche da parte del Direttorio,  gonfiare la cosa e farla passare per una grande vittoria, a Marengo se non ci fosse stata la disubbidienza di un suo  sottoposto il Generale Desaix che contrariamente agli ordini che gli erano stati impartiti fece marcia indietro con le sue  due Divisioni, e le scaglio’ contro l’esercito nemico che già si era impadronito del campo, sarebbe stata certamente la disfatta e non quella straordinaria vittoria , di gran lunga la preferita da Napoleone, caratterizzata da quella mitica frase  “una battaglia è perduta? c’è il tempo di vincerne un’altra!” frase che non si è neppure sicuri della sua effettiva pronuncia da parte del Gen. Desaix  prima di perdere la vita colpito in pieno petto da una palla nemica, appena slanciatosi alla testa delle sue Divisioni contro gli austriaci, frase  che  ovviamente fu fatta passare per vera, destinata a rimanere per sempre nell’immaginario dell’epopea napoleonica, anche se a ben vedere avrebbe dovuto rappresentarne la relatività. Torniamo quindi al cospetto di quella quasi magica entità che cominciava a seguire il Generale Bonaparte, la Fortuna, che forse poi tanto fortuna non era, che metteva in correlazione le vicende belliche  del generale con le aspettative che il popolo francese si aspettava da lui e un Direttorio, più che appagato dalle prebende di quella sorta di scaramucce e minacce, che quindi  si premurava di confezionargliele  adeguatamente.  Che questa fatidica manifestazione di questa curiosa fortuna  non riposasse, militarmente parlando, su niente di straordinario lo deduciamo dalla semplice cronologia degli episodi salienti della battaglia di Lodi : le avanguardie francesi arrivarono difatti in vista di Lodi nelle prime ore della mattina del 10 maggio, quando ormai l'intero esercito austriaco era in salvo oltre l'Adda, mentre alla difesa della cittadina era rimasta  una retroguardia di 10.000 uomini agli ordini del generale Karl Philipp Sebottendorf. Questi aveva piazzato tre battaglioni e sei cannoni in posizioni che dominavano il ponte di Lodi e la strada d'accesso e altre due sezioni di tre pezzi l'una erano appostate in ogni lato della strada. Napoleone attaccò frontalmente  sul ponte con i Granatieri mentre con un contingente di cavalleria cercava  di guadagnare un guado per aggirare gli austriaci, che però riuscirono a bloccare l’assalto  dei granatieri proprio a meta’ del ponte, sicchè il Gen. Massena si vide costretto ad intervenire e con il concorso di altri generali Berthier, Dallemagne e Cervoni  riuscì a guadagnare la sponda opposta .Un contrattacco di Sebottendorf  fece quasi riprendere agli austriaci il ponte, ma sempre il solito  Masséna cui si aggiunse l’apporto di un altro dei Generali in seconda di Bonaparte, Augereau, riuscì a stroncare  l'azione irrompendo nelle linee nemiche, venendo quindi  favoriti, i due comandanti in seconda dell’Armata nel pieno successo, dal provvidenziale arrivo dei cavalieri del Gen. Ordener che nel frattempo avevano trovato un guado. Sebottendorf si disimpegnò subito e si ritirò verso il grosso delle forze di Beaulieu, lasciandosi dietro 153 morti, 1.700 prigionieri e 16 cannoni. I francesi ebbero in totale 350 perdite, comunque  la a vittoria di  Lodi fu ben lungi dall’essere un grande successo così come fu subito rappresentata ed anche così come  è stata tramandata,  difatti fu  conseguita su di una semplice retroguardia dell’esercito principale,  il cui Generale subordinato Sebottendorf,  riuscì a disimpegnarsi con quasi tutte  le sue truppe per confluire nella perfetta ritirata strategica del comandante in capo Beaulieu, che a conti fatti non fu affatto quel pigmeo rispetto al gigante  cui la storia ha voluto tramandarlo. Da una parte Napoleone non fu esattamente quell’interprete straordinario di novello genio militare, cui  proprio da quei tempi è stato cominciato ad additarsi; dall’altra Beaulieu, come abbiamo appena visto,  fu tutto tranne che un incauto e sfortunato generale che ebbe a cimentarsi contro il “genio” per antonomasia , venendo battuto a ripetizione, ma un oculato stratega, magari non di spirito offensivo, ma di certo un vero maestro di ritirate strategiche. Abbiamo visto che a creare, specie la prima di  “leggenda” fu proprio il Direttorio per motivi di opportunità e convenienza: conveniva difatti ad un Organo  di Governo, asceso così rocambolescamente al potere, senza alcuna legittimizzazione legale e popolare, sfruttare le occasioni della Fortuna, quale si presentassero, per  oscure e contraddittorie che fossero, ecco! proprio del tipo di un generale venuto dal niente, praticamente senza una carriera a sostegno, con un incarico avuto piu’ che altro per camarille “di letto” e che potesse essere investito di una gloria tutta da gonfiarsi, appunto fargli “recitare quella parte” che abbiamo ripreso dalle tesi di un vecchio e dimenticato storico e che oggi in una fase della storia del mondo, che questo “recitare una parte” sembra diventata una caratteristica non solo episodica o accessoria di “esser-ci”, dovrà essere argomento di approfondimento e dovrà essere sviscerata  fino all’esaurimento. In effetti conveniva al Direttorio, conveniva a quel po’ di Rivoluzione che ancora accompagnava il Popolo francese, conveniva alla guerra in corso contro le coalizioni europee, conveniva anche alle finanze dello Stato, sempre in cerca di soldi, che un Esercito sul campo provvedesse a emettere tributi, fissare indennita’ di  guerra, fare razzie e incetta di opere artistiche dei territori che via via occupava, il tutto da inviare sollecitamente alla madre patria:  un qualcosa quindi, questa supposta grandezza che alla fin fine, come abbiamo visto dalle memorie dello stesso Napoleone della notte successiva allo scontro di Lodi, stava cominciando a far breccia, innanzi tutto su se stesso sulla sua particolare personalità, che per la prima volta si sentiva come investito di un potere straordinario e che di lì a poco, possiamo stare tranquilli, tutti, ma proprio tutti, amici e nemici, popolino e grandi uomini, contemporanei e posteri, gli riconosceranno all’unisono.  C’era uno dei punti elencati che dobbiamo esaminare con maggior dettaglio, strettamente correlato alla questione del recitare una parte e del gonfiarne i connotati : la questione del chiedere denaro come indennità ai vari Stati cui l’esercito si trovava a passare e operare razzie, un po’ a mo’ di vecchio esercito di ventura, in stretta associazione col suo impatto di minaccia e terrore verso le popolazioni:  in questo Napoleone si cimenta alla vigilia della battaglia di Lodi invadendo la neutralità del Ducato di Parma, ma non solo limitandosi ad occuparne i territori e requisendo tutte le imbarcazioni per il passaggio del fiume, ma altresì fissando una indennità e operando ruberie. Ecco la stessa identica cosa fa subito dopo, indentrandosi nel Milanese e anzi rincarando la dose, andandoci giu’ con mano molto più pesante:  chiede al Ducato di Milano 20.000 franchi una cima enorme per il cui pagamento indubbiamente il Ducato non si sarebbe potuto esimere senza imporre una tassazione a tappeto di tutti gli abitanti, e non solo, ma si lascia andare a lanciare proclami con minacce di saccheggi, plotoni di esecuzioni se non verra’ esaudito, di poi  alquanto contrariato che il Direttorio gli ha imposto  di cedere metà del comando della sua Armata al Gen. Kellerman, figlio  del famosissimo generale della cannonata di Valmy del ’92, arriva al punto di minacciare il ritiro.In merito allo sdoppiamento dell’Armata   come al solito ubbidisce anche se controbatte con una amara lettera ove più che alla divisione dell’Armata, si cruccia del fatto che non si pensi più a quella “manoeuvre sur le derriere” che era stata fissata dal famoso piano dei Generali del Direttorio di invasione della Germania nel 1795 (tra cui lui stesso) , ma unicamente a ricacciare in Tirolo gli Austriaci, cosa appunto che il Direttorio lasciava intendere di voler incaricare Kellerman e di converso, per lui, stabilire una sorta di raid per l’Italia centrale fino all’occupazione di Livorno  che solo molto genericamente avrebbe dovuto fiaccare la resistenza dell’intero Paese ed anche di forze inglesi che lo presidiavano: la verità e’ che il Direttorio abbagliato dai proventi che gli arrivavano dalle incursioni del suo Generale, nei vari Stati italiani, non aveva altre raccomandazioni se non quelle di insistere in questa pratica di non solo “finanziare la guerra con la guerra” , ma fare assai di più :  finanziare l’intera Francia di moneta sonante e altresì foraggiarla di opere d’arte, di magnificenze, di tesori. Così anche di quella suddivisione del comando d’armata, dopo la equilibrata ma ferma risposta di Bonaparte, che come si vede cominciava a essere uno che sa il fatto suo, non se ne fa più nulla (ha troppo paura il Direttorio di perdere la sua gallina dalle uova d’oro)  e anzi Kellerman veniva inviato in Italia con 10.000 uomini di rinforzo,  ma in sottordine a Bonaparte. Diciamo che dopo Lodi e con la presa di Milano, la Fortuna  gioca sempre alla grande, però, e’ doveroso notare che il suo massimo beneficiario ci mette ogni volta qualcosa in più di suo : si d’accordo era stato un abile spauracchio per i vari per lo più imbelli Stati Italiani, ivi compresa la Repubblica di Venezia che il Direttorio si raccomandava di considerare potenza non amica e pertanto invadere con tutta tranquillità i suoi territori e richiedere le solite indennità e fare le solite requisizioni di tesori e opere d’arte, ma ora si slancia con foga contro la linea del Mincio verso  Borghetto dove costringe Beaulieu  alla sua solita ritirata strategica oramai nella valle dell’Adige tranquillamente verso il Tirolo, ma disimpegnando suoi 20 battaglioni alla difesa della estrema fortezza di Mantova che a questo punto, in quella seconda parte di maggio 1796 era l’ultima fortificazione austriaca di tutta la Lombardia. Neppure Borghetto era stata una grande vittoria, però come al solito aveva lasciato Napoleone padrone del campo e questo tradotto nel linguaggio per il  Direttorio, significava altre cospicue entrate, mentre da parte dello stesso Direttorio  significava   profferire ulteriori allori, sempre per quella parte da gonfiare e da fare recitare al più che volenteroso comandante in capo. Insomma parliamoci chiaro: il Direttorio diventa davvero quel punto di coagulo di tutte le operazioni che in qualche modo finiscono nelle sue casse e in qualche modo all’intera cittadinanza e quindi si fa anche cassa di risonanza  in merito alle imprese di quel, fino a ieri sconosciuto Generale. Un destino fatto di alcune secondarie battaglie, parecchie scaramucce, una grande dose di fortuna, che si è compiaciuta di fissare la sua  mano su di un paio di località e vere e proprie  sequenze, magari prefissate di eventi, come la defezione Savoiarda all’Austria e l’armistizio di Cherasco, l’abbandono quasi senza colpo ferire  di Ceva e poi del Ponte di Lodi presidiato solo da una retroguardia, mentre il grosso dell’Esercito era oramai al sicuro, Generali avversari, sia quello savoiardo Colli, che quello austriaco Beaulieiu, per nulla dominati dalla genialità del giovane comandante francese, ma che anzi erano stati più che altro degli abili tessitori di ritirate strategiche ed infine neppure messi in scacco dai tempi nuovi della Rivoluzione, con la leggenda che imponevano metodi e strategie diverse di guerra, senza rispetto di regole, osservanza di patti, rispetto di neutralità di Paesi non ostili, perché se questa fu una delle peculiarità di Bonaparte di certo il comandante austriaco non fu da meno, tant’è che, per ritirarsi oltre il Mincio non si curò minimamente di infrangere la neutralità della Repubblica di Venezia. Semmai, ecco si può dire che Napoleone lo fece molto di più, ma non ci illudiamo, in questo costantemente istigato dal Direttorio, che raccomandava di non considerare più alcun Paese neutrale, ma tutti alla stregua di possibili alleati del nemico e pertanto utilizzare la forza delle armi per indurre i pavidi, ma ricchi e floridi Paesi italiani   a pagare tributi e a consentire il sistematico spoglio dei loro tesori e opere d’arte. La verità è che non è Napoleone, né nessuno dei suoi Generali e soldati, il responsabile  dell’avventura italiana  e delle sue immense conseguenze, dice ancora Ferrero, nel sistematico ragguaglio che la sua opera “Avventura” ha con il presente scritto:  il responsabile è il Direttorio, il Direttorio, come abbiamo già osservato, organo direttivo e di governo illegittimo, il quale non potendo trovare  alcun principio di diritto nel suo operare, ecco che all’improvviso lo aveva trovato in alcune secondarie imprese militari su di un fronte secondario, in merito  ad una sua sorta di scommessa su di un generale sconosciuto che grazie anche a indubbi colpi di fortuna aveva colpito l’immaginazione delle folle. Bhe! superfluo dire che se quel Generale era frastornato, tutto il Direttorio  quasi non credeva a quanto si stava compiendo sotto ai suoi occhi:  la creazione di un Mito, in linea coi tempi  di infatuazione romantica, dell’uomo solo e sconosciuto che in forza del suo talento, del suo genio, della sua grandezza degna di essere accostata ai più grandi condottieri, che trionfa su tutto e su tutti e non solo; ma a parte questa fama che difatti da Parigi comincerà a caldeggiare, a gonfiare ogni oltre limite, si profila questa straordinaria occasione di trarre, grazie al ricco e sguarnito  serbatoio  italiano, profitti immensi in una guerra che stava facendo ben più di quella medioevale delle compagnie di ventura, che come abbiamo osservato si finanziava da sola:  questa è una guerra che per la prima volta nella storia,  finanzia  e arricchisce la Nazione che l’ha ingenerata. Possiamo a contrappasso di tal ragionamento, dire che la figura del giovane generale Bonaparte stava emergendo dalle brume della storia con caratteristiche invero uniche e inusitate: anche ai tempi di Roma c’era l’Homo Novus, Caio Mario, Agrippa, Seiano, Vespasiano, ma era sempre inserito in un contesto preordinato senza possibilità di essere troppo innalzato sulle masse se non con il meccanismo dell’adozione o di quello estremo della deificazione; per tutta la storia dell’umanità  fino alla Rivoluzione Industriale, nessuno, se  non eccezionalmente Capitani di Ventura, Banchieri, Magistrati   che riuscivano ad ascendere alla guida di una Signoria, ma mai comunque a livello di Regno o di Impero, erano riusciti ad emergere in modo così netto:  è con la Rivoluzione Industriale che ora per la prima volta si diparte questa nuova possibilità essendovi tutta un’altra serie di parametri in gioco : anzitutto quello fondamentale che non è più l’uomo il riferimento principale dell’essere al mondo, bensì la macchina: equiparato ad una macchina anche l’essere umano può essere oggetto di costruzione, di assemblaggio, di sostituzione, di demolizione, e questo attribuendogli anche una serie di qualità accessorie, tipo una bella coloritura, la lucidatura di condotti, materiali più pregiati etc. L’uomo viene espropriato della sua essenza ma assume il senso del suo apparire, ed ecco che, per favorire questo apparire, possono essere messi in campo tutta una serie di espedienti, la pubblicizzazione, l’esaltazione, la gonfiatura, spesso e volentieri del tutto arbitrarie delle sue gesta, o meglio quelle che si vuole che siano passate per gesta, quindi fargli “recitare una parte” e fare in modo che questo recitare una parte sia del tutto indistinguibile dal farla per davvero. Ferrero parla di strano destino che Napoleone Bonaparte sia stato nel contempo  il più celebre e il piu’ sconosciuto degli uomini: un uomo  che il mondo non doveva mai conoscere tale quale è stato, un uomo di cui si sarebbe visto un doppione creato dall’immaginazione  credula delle folle: Io non credo che possiamo parlare di “strano destino” : è il destino dell’uomo moderno venuto fuori dalla Rivoluzione Industriale, venuto dalla sua identificazione con la macchina, il meccanismo, l’ingranaggio, che ha fatto si che oramai la sua identità non sia recuperabile se non nella molteplicità dei suoi apparire, nella proliferazione di sempre nuove “parti” che una società sempre più atomizzata e spersonalizzata non ha fatto altro che assegnargli in questi ultimi due secoli e mezzo. Siamo, da una parte con  “l’uomo ad una dimensione” di Marcuse, ravvediamo l’insetto di Kafka, da lontano la Balena bianca di Melville, quindi  l’eterno Dottor Faust alle prese con il Mefistofele di Goethe, che si fa la malattia commista però all’arte nel Doctor Faust di Thomas Mann, ma si ritorce in se stesso rispetto al potere costituito  nel libro del figlio di Thomas, Kaus Mann: Mephisto . E’ l’uomo che non ha mai più ritrovato se’ stesso, perdendolo nella  frammentarietà  delle sue rappresentazioni e delle sue identificazioni, tutti quei “recitare una parte” hanno seppellito l’unica vera parte di se stesso,  sicchè alla fine proprio come i personaggi di Pirandello, si ritrova anch’egli in cerca di autore. In termini pratici, ai primi di giugno di quel 1796, Bonaparte ormai padrone del Milanese, aveva continuato a fare quello che il Direttorio gli avallava oramai con fervente entusiasmo e anche la popolazione di tutta la Francia gli tributava quel plauso che oramai rasentava l’adorazione. Era lui il Generale che più di ogni altro incarnava la Rivoluzione e l’Italia stava mostrandosi una sorta di luogo di elezione delle idee dell’89: nessuno però andava a sottilizzare come otteneva tali risultati, ovvero imponendo sempre nuove tasse e gabelle ai territori degli Stati che proditoriamente invadeva e spogliandoli delle ricchezze artistiche, spaventandone a bella posta i governanti e minacciando con particolare enfasi le ribellioni che qua e là si verificavano, soprattutto nel Milanese dove l’unica fortezza ancora in mano all’Austria era rimasta Mantova. Le aspirazioni a continuare le direttive del piano del Direttorio ovvero di invasione “sur le derriere” della Germania erano oramai decisamente rientrate e così anche quelle di invadere l’Italia Centrale, soprattutto perché oramai bastava semplicemente minacciare i pavidi Stati Italiani per ottenere tutto quello che  desiderava, così era successo con il Ducato di Parma , così con la Repubblica di Venezia ed ora anche  con il Re di Napoli che un suo contingente di appoggio all’Austria era stato battuto a Borghetto sul Mincio e persino con il Papa e lo Stato Pontificio  che si erano piegati alla sua volontà quasi senza neppure vederla una giubba di un soldato francese. Sotto il profilo squisitamente militare, come abbiamo cercato di dettagliare, il generale Bonaparte  aveva eseguito un piano preconfezionato a Parigi un anno prima della sua esecuzione, di cui eccettuato il rintuzzato attacco austriaco di Cairo Montenotte, successo dovuto più al suo sottoposto Massena che a lui, non c’erano state successivamente che scontri contro retroguardie, anche qui dove erano emerse doti di comando e azione dei sottoposti, sempre di Massena che sempre più si mostrava meritevole di quell’epiteto di “invincibile” ma anche di  Berthier, che era il Capo di Stato Maggiore dell’Armata, degli altri due Augereau e Serurier comandanti in seconda ovvero quello che di li’ a poco sarebbe stato etichettato come “comandante di Corpo d’Armata” e anche una serie di generali a livello di Divisionari :  Cervoni, Dallemagne, Ordener. Ma più che altro quello che davvero aveva infuso le ali ai piedi della fortuna del Bonaparte era stata la defezione, per motivi del tutto estranei alla strategia militare,  dell’Esercito Piemontese, culminata con l’improvviso armistizio di Cherasco. E’ qui e non sul Ponte di Lodi che può addursi l’inizio di quella particolare considerazione che non fa più riferimento a fatti reali, concreti, ma piuttosto considera gli eventi come una sorta di recita  da abbellire, colorare e su diciamolo, anche da inventare di sana pianta, fino pervenire ad una composizione per così dire ineccepibile. Composizione non scevra di alcune suggestioni che in un’epoca di nascente romanticismo quale quel “fin de siecle” in cui ci si trovava nella piana d’Italia, non potevano che polarizzare l’attenzione e accendere gli entusiasmi di larghi strati delle popolazioni, anche di quella stessa Italia le cui porte si erano come magicamente dischiuse a fronte di uno scalcinato esercito comandato da un Generale poco più che un ragazzo: e’ la ragion di stato di un Regno come quello dei Savoia, famoso per il suo opportunismo, per il suo cambiare bandiera, per le sue appunto molteplici “ragion di stato”  che era da perlomeno tre anni che tramava per sganciarsi da una alleanza con l’Austria, che doveva provocare il collasso della potenza offensiva del contingente austriaco e quindi indurre ad una strategia peraltro perfettamente eseguita, di ritirata strategica, impegnando nelle battaglie di contenimento sia a Ceva che a Mondovi che a Lodi ed infine anche a Borghetto sul Mincio, solo forze di retroguardia: tutte pieces però che la oramai collaudata  macchina propagandista del Direttorio era  in grado di trasformare in sfolgoranti vittorie, a beneficio di se’ stesso certamente, del suo potere, della sua oculatezza e anche a grande incremento delle sue finanze stante i cospicui beni che continuamente riceveva dalle provincie occupate, grazie a quel nuovo modo di intendere la guerra da parte del giovane generale. Ma ecco il punto : proprio sicuri che quel Generale di 27 anni sia solo una sorta di bella statuina capace di impersonare la parte che per ora si è convenuto di fargli interpretare? Napoleone Bonaparte non si discostava granchè dal clichet del Generale della Rivoluzione, lo abbiamo visto impegnato nella stesura del piano per la Armata d’Italia, piano che poi per una serie di circostanze di cui ne abbiamo esaminato quella più trainante, ovvero avere sposato l’ingombrantissima amante di uno dei più influenti membri del Direttorio Barras, si era ritrovato ad esserne il realizzatore; non era né migliore, ne’ peggiore di altri suoi coetanei, ma decisamente non godeva del prestigio di Generali un po’ più anziani, magari provenienti dalle strade più disparate come Massena, Augereau, Serurier, Moreau, Kellerman padre, che però sarebbero stati meno manovrabili dal Direttorio: un’altra cosa da prendere nella debita considerazione è che c’era inoltre un impianto teorico alla base della formazione comune di tutti i quadri militari dell’esercito della Rivoluzione, quel“ saggio generale di tattica”  attenzione di tattica, non strategia e neppure logistica  fatto da un ufficiale trentenne nel 1773, di media nobilta’  il conte di Guibert (1743-1790)  Come abbiamo già fatto cenno, in questo libello veniva  affrontato un nuovo modo di far la guerra, che da una parte si rifaceva  alle antiche compagnie di ventura dei primi secoli del millennio, che facevano la guerra giustappunto vivendo di essa e cioè di razzie, di saccheggi, dall’altra rigettava tutta la concezione di rigorosa organizzazione degli eserciti, che era stata coeva alla formazione dei grandi Regni e Imperi, e che probabilmente aveva avuto la realizzazione più congrua con il grande condottiero  Principe Eugenio di Savoia (XVII secolo e inizio del XVIII) e del suo amico Duca di Malborough, ed era ancora rappresentata da Federico il Grande, che pure aveva avuto modo di conoscere  il “saggio”  di Guibert e ne era rimasto  molto colpito. Il punto è che tutto il senso del “saggio” di Guibert era volto a  demolire la stessa concezione dell’arte militare così come era stata interpretata negli ultimi due secoli ed in particolare proprio in quella prima parte del secolo XVIII, ovvero troppi soldati, troppi cannoni, carriaggi, salmerie, enormi parchi di artiglierie, e quindi una massa elefantiaca, lentissima, quasi totalmente incapace di manovrare; per Guibert  bisognava preferenziare l’agilità di truppe scelte, mobili, agili, svincolate da appendici di ogni genere, ovvero bisognava affidare l’azione alla velocità: “se la massa è il corpo di un esercito…”diceva “…la velocità ne e' l'anima  l’anima” Facendo quindi ritorno al giovane generale Bonaparte impegnato in quel del territorio italiano a scorazzare in lungo e largo alla ricerca di sempre nuovi proventi da estorcere ai vari deboli e pavidi Stati, che ovviamente anche lui aveva la sua copia del “Saggio” di Guibert e trovavava nel suo immediato sottoposto Serurier il suo più documentato ed esperto seguace sempre con sé, possiamo senz’altro affermare che tutta la seconda parte della campagna quella che si diparte dallo scontro di Borghetto sul Mincio fino a Rivolì è totalmente improntata alla teoria della velocità di Guibert. In quella piena estate  del luglio 1796 l’esercito francese  era composto da coscritti dai 20 ai 25 anni, mentre l’esercito professionista che si apprestava a ridiscendere le Alpi per riconquistare l’italia aveva un organico di 15/20 anni più vecchio. Il primo sembrava una emanzione delle teorie di Guibert :  vivace , mobilissimo, del tutto estraneo alla vita di caserma, quasi non conosceva l’esistenza dei magazzini,delle salmerie, ma si muoveva  agilmente per il territorio prendendo quel che gli occorreva dove capitava, il netto contrario dell’Esercito che l’Impero Austriaco aveva approntato per  riconquistare il terreno perduto, affidandolo ad un Comandante della vecchia scuola, il settantaduenne Feldmaresciallo  Dagobert Sigmund Von Wurmster, che si era messo in marcia con un contingente di 50.000 uomini diviso in tre tronconi : sulla destra  il generale Quasdanovitch doveva aggirare l’estremità settentrionale del Lago di Garda puntando su Salò e Brescia, il Corpo centrale era al comando dello steso Wurmster e puntava a impadronirsi di tutto il corso sinistro dell’Adige fino a portarsi sulle posizioni di Montebaldo, il terzo agli ordine del Generale  Davidovich  doveva scendere lungo la destra dell’Adige e sboccare su Verona che per l’intanto era stata occupata da Massena. L’esercito francese era schierato in pianura  da Peschiera a Mantova lungo il Mincio fino a Legnago sull’Adige. Tradizionalmente i due eserciti, che numericamente si equivalevano  avrebbero manovrato a lungo l’un contro l’altro, ingaggiando sporadici combattimenti, ma anche pragmaticamente questo non conveniva ai francesi e ciò Napoleone, indipendentemente dal suo fervore per le teorie del Guibert, lo avevo capito fin troppo bene: difatti quel vivere di razzie e saccheggi senza né magazzini né carriaggi ne salmerie, lo esponeva ora che il nemico vero era tornato a farsi vedere, ai contraccolpi delle rivolte delle popolazioni che potevano essere pericolosissime, alle spalle di un esercito impegnato in guerra: ed ecco che qui viene fuori quel certo barlume di genialità del personaggio che si era ritrovato al centro di tutto quello sconvolgimento e che in parte, solo in parte, giustificherebbe la fama di eccezionalità che gli si stava cucendo addosso : il 31 luglio difatti  tolse l’assedio a Mantova gettando i cannoni nel lag e si slanciò contro il lato destro del contingente austriaco sorprendendolo e battendolo a Lonato per ricacciarlo verso Riva del Garda. Un’azione davvero fulminea, che riusciì a bissare sempre verso Lonato volgendosi verso il contingente centrale  comandato dallo stesso Wurmster, mentre il gen. Augereau otteneva un ulteriore successo a Castiglione. Diciamo che mai e poi ai la teoria Guibert aveva avuto una conferma così plateale, Napoleone suffragato magnificamente dai suoi Generali in seconda Massena e  Augereau era riuscito  a sfruttare la mobilità di manovra delle sue truppe, riuscendo a concentrale nel punto più favorevole e sferrare improvvisi e rapidi attacchi che avevano scompigliato i contingenti nemici. E' vero che la valle del Po rappresentava un campo esperimentale ideale per tutta la dottrina Guibertiana, ma bisogna per la prima volta anche  ammettere che il Generale comandante dell'armata, stava cominciando a dimostrare i suoi numeri e come fatto cenno, anche in parte mostrare di essere entrato a pieno titolo nella parte che la Fortuna e gli eventi precedenti , più un interessato  organo di potere, ne avevano fatto il protagonista. Riorganizzate le sue forze Wurmster provò nuovamente nel settembre  a riconquistare la Valle del Po cercando di saldare  la sua discesa lungo la valle del Brenta fino al caposaldo della Fortezza di Mantova che restava sempre l’unico punto fermo della presenza austiaca  e questo mentre il suo Generale in seconda Davidovich tornava a scendere dalla valle dell’Adige, ma ancora una volta la tattica Guibertiana imperniata sulla velocità ebbe la meglio degli elefantiaci contingenti austriaci cui ogni allungamento delle linee di marcia e di comunicazioni  dovevano essere accompagnati da  spostamento di depositi, carriaggi e salmerie. Manovrando agilmente tra le  le due ali nemiche, Bonaparte operò prima contro Davidovich facendolo riarretrare verso il Tirolo e quindi si era rivolto verso Wurmster  sorprendendolo e battendolo a Bassano. Giusto alla metà di settembre quindi   anche questo secondo tentativo di  riprendere i territori perduti era miseramente fallito e a Wurmster non restava che asserragliarsi a Mantova. Di converso Bonaparte scongiurato il secondo attacco di riconquista austriaca cominciò a modificare il suo comportamento e anche pensiero: se fino ad allora era stato un solerte esecutore delle disposizioni del Direttorio, ora in quei primi di ottobre  cominciò a fare un po’ di testa sua, comportandosi come un sovrano in terra di occupazione, difatti non contento di spaventare tutte le popolazioni italiane fino addirittura a comprendere il Papato, denunciò  l’armistizio col Duca di Modena deponendolo e ponendo i popoli di Modena e Reggio sotto la protezione dell’esercito francese. Fatto questo cominciò ad accarezzare l’idea di favorire le aspirazioni indipendentistiche che si erano avuti in vari Stati  e proclamare  una Repubblica federativa composta dai Ducati di Modena di Reggio con l’aggiunta degli Stati di Ferrara e di Bologna, dandole il nome di  Cispadana. Si è discusso a lungo tra gli storici se fu proprio Napoleone l’ispiratore della idea di una Italia unita, così come se la Rivoluzione abbia  o no inventato  le guerre di propaganda per la libertà  o piuttosto non abbia invece continuato  le guerre di espansione dell’Ancien Regime. Il punto è sempre l’istanza utilitaristica che guidava sia il Direttorio che Bonaparte che vedeva ogni giorno accrescersi la sua influenza e anche il suo potere e ora che era decisamente tramontata la originaria idea di utilizzare l’Italia come corridoio per colpire alle spalle il fronte germanico, ovviamente era alla ricerca di espedienti che gli assicurassero un contesto più favorevole di popolazioni in rivolta, e cosa poteva esservi di meglio che ergersi a paladino della libertà dei popoli, e fomentare le aspirazioni di indipendenza ed anche di una proto unità nazionale dei territori italiani?  D’altronde c’è da rilevare come  nello spazio di pochi giorni l’intera mentalità di tutta la popolazione italiana, si era staccata dall’Ancien Regime e aveva abbracciato quella della Rivoluzione, portata però dalle baionette dei soldati di un generale di 27 anni, che era  riuscito a mettere in riga tutti gli antichi sovrani e persino il Sovrano meno terreno : il Papato. Bonaparte insomma  propose al Direttorio di aiutare il partito pro Rivoluzione nell’Italia centrale non certo per favorire le fumose e indistinte aspirazioni di qualche gruppo di exagitati imbevuti di romanticismo , ma solo per ottenere un po’ di tranquillità nei territori conquistati e costruirsi una base di appoggio, specie sul finire di ottobre quando fu oramai assodato che l’Austria preparava un’altra spedizione di riconquista dell’Italia affidandone il comando al generale Joseph Alvinczy von Berberek che il 1 novembre partendo da Gorizia avanzò contro Massena che aveva il suo quartier Generale a Bassano, mentre il Gen Davidovitch scendeva da Bolzano lungo la Valle dell’Adige per attaccare i Francesi a Trento. I due eserciti contavano quindi di riunirsi e marciare su Mantova dove era asserragliato Wurmster : sulle prime le operazioni furono favorevoli agli Imperiali, tanto da indurre Napoleone ad inviare una disperata lettera di aiuto al Direttorio, ma poi per uno di quegli strani casi della sorte, che come abbiamo più volte visto, aveva preso a benvolere il giovane generale, questi  radunando tutte le sue forze   in un supremo sforzo a “la và o la spacca” attaccò frontalmente Alvinczy; in verità aveva fatto un po’ un ragionamento alla teoria di Guibert, questa volta però di segno contrario : si era difatti reso conto che per marciare lungo la pianura veneta Alvinczy aveva molto allungato le sue vie di comunicazione e soprattutto perso contatto coi suoi depositi e rifornimenti, il che non disponendo di un esercito mobile e agile come quello francese lo poneva senz’altro in condizione di vulnerabilità qualora si fosse individuato un punto, diciamo così di rottura, secondo un concetto di sfinimento strategico e logistico del pesante esercito austriaco.  Questo punto gli parve di individuare nel ponte sul fiume Alpone a ridosso del Villaggio di Arcole  e qui difatti concentro’ tutti i suoi sforzi, sapendo bene che doveva battere Alvinczy prima che si congiungesse con Davidovitch;  addirittura nel fervore dell’azione, preso un tricolore, si slanciò in prima persona nell’attacco, che per poco non finì  tragicamente, dato che lui, non avvezzo a queste esternazioni di coraggio, cadde malamente in un fosso a ridosso del Ponte di Arcole  e sarebbe stato certamente fatto  prigioniero, se non si fosse lanciato in suo aiuto l’aiutante di campo Gen. Berthier. La verità e’ che la battaglia di Arcole, dopo tre giorni di accaniti combattimenti, che vedevano tutti e Bonaparte e i suoi due generali in sottordine Massena e Augereau bloccati sul Ponte, ancora una volta fu decisa da un magistrale intervento di Massena, che riuscì ad ingannare gli austriaci piazzando una sola Brigata delle sue truppe fuori l’abitato di Arcole, nascondendone il resto nella vegetazione e quindi attirandoli fuori la cittadina e sbaragliarli. Visto il successo di tale azione anche Napoleone fece qualcosa di simile, difatti radunato un piccolo contingente della sua Guardia del Corpo, lo spinse a guadare il fiume in un punto nascosto  per poi lanciarsi  con tanto di squilli di trombe sul retro delle posizioni austriache di Arcole, facendo loro credere di trovarsi attaccati alle spalle da un grande reparto che subito si  ritirarono verso nord convinti di un imminente attacco in forze francese. Grazie a questo stratagemma i reparti che bloccavano Augereau sbandarono dando l'occasione al generale francese di riunirsi con Masséna nell'ormai libera Arcole, da dove, assieme ai soldati provenienti da Legnago, dilagarono nelle zone circostanti. Alvinczy, di fronte a quella che gli sembrò una grave minaccia alle sue retrovie, ordinò la ritirata su Vicenza. Con un prezzo di 4500 perdite in tre giorni di furiosi combattimenti, Napoleone aveva definitivamente stroncato il tentativo di Alvinczy di riunirsi con Davidovich e liberare l’Italia centrale.  Con 7.000 uomini in meno, morti, feriti o presi prigionieri ad Arcole, Alvinczy riuscì a malapena a ritornare a Trento abbandonando del tutto il progetto di liberare Manto. Arcole però non era stata una vittoria  definitiva e anzi aveva accentuato quel senso di incompiuto,di provvisorio, che sembrava come pascersi del fondo limaccioso della valle del Po; a parte l’episodio della goffaggine del Generale in capo che era stato salvato per un capello dal suo tentativo di spronare con tanto di tricolore alla mano, i soldati per rompere gli indugi di una resistenza nemica sempre solida, la verità è che anche questa battaglia non aveva lasciato né vincitori, né vinti, ma solo una situazione incancrenita dall’agonia della fortezza di Mantova, ma anche da una serie di rivolte, pronunciamenti di questo o quello statarello, costringendo Napoleone a recarsi di presidio a Bergamo, a Brescia, a Tortona.   Riprendeva piede  il tentativo di trascinare tali riottosi popoli nella costituzione di repubbliche che avessero una continuità di ideali e di intenti con la grande madre della Rivoluzione: una questione di opportunità per togliersi dall’impasse di una situazione sempre più aleatoria , tant’è che il Direttorio era addivenuto alla risoluzione di inviare un altro di quei numerosi  Generali che avevano fatto parte del comitato per il Piano del ’95, il più attempato coi suoi 31 anni, il Generale Clarke, per concordare una pace con l’Austria.Ovviamente Bonaparte non vide di buon occhio  tale operazione, che però non ebbe il coraggio di contrastare apertamente. Noi siamo abituati a ritenere che la prima Campagna d’Italia di Napoleone sia stata un susseguirsi di fulgide vittorie, una sorta di progressione verso la gloria, dove il fattore tempo resta ingoiato dall’azione, ma non vi può essere nulla di più errato: come abbiamo visto le battaglie erano state tutte mezze battaglie, scontri con retroguardie, che solo la maggiore velocità delle truppe francesi magistralmente guidate da espertissimi generali come Massena, Augereau e Serurier avevano consentito di assegnare a loro la vittoria. La situazione in quel lunghissimo estenuante periodo di tregua da Arcole a Rivoli, si era quanto mai impantanata senza possibilità di soluzione. In verità furono solo due mesi ma incredibilmente estenuanti, dove ancora una volta nella mente di Napoleone riprese corpo la idea di realizzare l’idea originaria del piano ovvero valicare la Alpi e prendere alle spalle l’Austria, questo anche perché la Cispadana non rappresentava quell’aiuto che avrebbe potuto aspettarsi  e le rivolte, piccole rivolte degli stati italiani, sempre più diffuse e insidiose;  si era diffatti ribellata parte della Garfagnana, la cittadina di Carrara, ancora una volta Tortona e tutto sembrava  tramare tranelli, minacce, insicurezza…. dal Regno di Napoli allo Stato Pontificio, alla Repubblica di Venezia. Inficiando i tentativi di armistizio del Gen.Carke e anche le velleità di attacco  di Napoleone attraverso l’esecuzione del grande Piano del ’95, l’Austria all’improvviso rompeva gli indugi e tornava ad attaccare nella prima decade di gennaio del 1797. Lo ripeto, lo studio e la riesamina dei fatti porta a ribaltare completamente l’assunto che era sempre stato Napoleone ad attaccare difatti e’ semmai sempre vero il contrario:  fin dalle prime scaramucce dell’aprile e la battaglia un po’ più seria di Cairo Montenotte,  l’iniziativa dell’attacco era sempre stata solo dell’Austria e anche questa volta non si doveva assistere ad una eccezione. Il piano sempre affidato al Gen Alvinczi prevedeva un attacco per le gole del Brenta passando poi per le valle dell’Adige, mentre un suo Generale in sottordine Provera aveva il compito  di marciare su Mantova passando per Padova e Legnano: Il tranello di Alvinczi  era quello che vedendo Mantova minacciata,  i Francesi fossero indotti a alleggerire la posizione di Rivoli per bloccare Provera e consentissero a lui di batterli appunto a ridosso del Lago di Garda, ma Bonaparte che proveniva da Bologna si calò subito nell’emergenza e sfruttando la maggiore agilità e mobilità delle sue truppe, concentrò a se tutte le sue forze  e tutti i suoi eccezionali Generali tra cui come al solito rifulse Massena, che fu uno degli artefici della Grande Vittoria;  in effetti  Rivoli fu la prima grande e indiscussa vittoria di tutta la campagna d’Italia, quella che probabilmente consentì a Napoleone non più di recitare una parte, ma di entrarvi in tale parte. La storia sembra finalmente aver trovato il suo eroe indiscusso, poca importanza ha il fatto che probabilmente Massena aveva più meriti di lui (succederà lo stesso tre anni dopo a Marengo con Desaix) ma  e’ lui il comandante in capo e la leggenda che vuole nel piccolo Generale il nuovo Alessandro sembra confermata a gran voce. Mai l’esercito francese aveva riportato una vittoria così categorica. Pochi giorni dopo difatti la Fortezza di Mantova  veniva espugnata e Bonaparte diventava sul serio  padrone di tutta l’alta Italia. Siccome però la situazione  era sempre di estrema aleatorietà ecco che cominciava a riaffiorare la  strategia originaria del piano del ’95  che il Generale comandante dell’Armata vedeva soprattutto come  una sorta di via d’uscita dalla situazione venutasi a creare: padrone del campo si, ma possiamo azzardare, con poche ferriere , e molto molto insicure e pericolose: difatti gli innegabili successi che anche lui aveva cominciato a collezionare lo avevano, per così dire,  fatto entrare nella parte del condottiero vittorioso, si da ritenersi l’unico generale in grado di realizzare fino alle estreme conseguenze le disposizioni originarie del piano dei Generali del ’95: in effetti a questo punto, non si trattava più di recitare una parte, parte che altri avevano fissato e sviluppato per lui : si trattava a questo punto di entrare nel modello, come in un esperimento di ristrutturazione in psicologia alla Milton Erickson, alla Bandler e Grinder della Programmazione Neurolinguistica, non più come in un film di cui si vedono le varie sequenze, ma sentendo quello che il protagonista sente, le sensazioni, il profumo dell’aria, il terreno su cui si poggiano gli stivaloni.  Possiamo dire che Napoleone Bonaparte  con l’entrata nel 1797 e il suo ventottesimo anno  di età, soprattutto dopo una battaglia vittoriosa a Rivoli dove lui non era stato da meno dei suoi esperti generali in seconda, era entrato nella parte (in gergo popolare potremmo dire “aveva cominciato a provarci gusto”). Questo non significava che da Rivoli in poi aveva cominciato a fare di testa sua, come una certa storiografia, anzi la pressocchè totale storiografia su di lui ha sempre insistito ad asserire; in sostanza restava  sempre ligio alle direttive del Direttorio che subito dopo la battaglia d Rivoli e la conquista di Mantova gli aveva ordinato  di fare incetta di tesori e fondi nelle Chiese, nei Monti di Pietà dello Stato Pontificio ed anzi risolvere una volta per tutte la questione con papa Pio VI:  poche scarmucce a Bologna ad Imola, l’occupazione di Ancona,  portavano  il papa  a chiedere la pace e a firmare il trattato di Tolentino il 19 febbraio, nel quale il Papato cedeva Avignone, il contado di Venasque, Bologna, Ferrara e tutta la Romagna. Ottenuto  quindi quest’altro grande successo che ancora di più faceva entrare nella parte del Conquistatore  il giovane Generale, il Direttorio non solo aveva  ratificato appieno il Trattato, ma finalmente si era deciso  a dare avvio al Grande Piano del ’95, quello di cui l’allora sconosciuto Generale aveva dato la sua modesta collaborazione e che ora in prima persona, anzi da  protagonista assoluto, veniva incaricato di mettere in atto. L’istruzione è del 3 febbraio 1797  e oramai si ordinava  finalmente al Generale e alla sua Armata di invadere il Friuli e conquistare Trieste in parallelo all’invasione del Tirolo, e quindi  procedere appieno con l’esecuzione famoso Piano, ovvero  invadere gli Stati d’Austria  e effettuare il congiungimento  con le truppe francesi in Germania: l’ Armata del Reno, comandata da Moreau e quella della Sambra e Mosa da Hoche, per effettuare quindi  congiuntamente una pressione a distanza su Vienna e costringerla alla pace. Palesemente come per incanto in tutta Italia settentrionale e centrale, il partito che puntava sulla presenza dei Francesi per rovesciare l’Ancien Regime e proclamare libere Repubbliche  somiglianza di quella francese, cresceva a dismisura “La Rivoluzione ha conquistato tutti i cervelli d’Italia” scriverà Bonaparte al Direttorio, ma intanto non è che la faccenda lo rassicurasse granchè, anzi…a questo punto era molto più concentrato sulla prospettiva di lasciarla quell’Italia nella quale si sentiva sempre più impantanato e dedicarsi anima e corpo alla realizzazione integrale del Piano per il quale si sentiva oramai pienamente pronto. Numerose missive di Bonaparte, dei primi giorni di marzo  ai suoi generali, Joubert, Augereau, Clarke, soprattutto Massena, denotavano questo pensiero fisso : varcare le Alpi e portare l’Armata dalla Valle del Po alla Valle della Drava, ed ora che il Direttorio aveva dato il suo benestare al piano, l’unica preoccupazione  era quella che Moreau e Hoche si muovessero e varcassero il Reno per consentire il congiungimento delle Armate e quindi non lo lasciassero isolato. Cade così un altro pilastro della leggenda di Napoleone che lo vuole indefesso assertore del suo genio militare, unico e solo artefice di un piano arditissimo di penetrazione in territorio germanico senza chiedere consigli o collaborazione ai suoi sottoposti, proprio le missive a Joubert a Massena i frenetici colloqui con Clarke sono lì a dimostrare il netto contrario. Vediamo difatti un comandante in capo titubante quasi implorante che i generali sottoposti assolvano al loro compito e c’è sempre quel chiodo fisso del superamentodel Reno da parte degli altri due comandanti d’Armata Moreau e Hoche. “conto di essere per il 20 marzo  sulla Pontrebbana per la strada che porta da Udine a Klagenfurt, ma voi  dovete spingervi fino a Pontebba e se possibile anche a Tarvisio “ scrive a Massena, mentre da Joubert pretende che occupi Bolzano e Bressanone “solo allora potremo procedere  e riunire tutta l’Armata nella Valle della Drava  il che obbligherà il nemico  a ritirarsi per coprire la strada per Vienna” Piu’ che un vero piano si tratta di una serie di ipotesi su cio’ che l’Armata d’Italia avrebbe potuto fare, sempre nella eventualità che le Armate del Reno e della Mosella “potevano spingersi  un po’ più in avanti” Insomma a me non pare il portamento e neppure la olimpica sicurezza di un Generale vincitore  alla Alessandro, alla Scipione, alla Mario, alla Cesare, ma piuttosto   di una persona molto insicura che si raccorda coi suoi sottoposti con continue missive in cui molto fumosamente da’ delle disposizioni molto di massima, io ci vedo chessò più un Baratieri che in Africa nel marzo del 1896  prima di attaccare battaglia con l’Esercito abissino convoca tutti i suoi comandanti di Brigata per avere conferme sulla correttezza del suo piano, o magari il duo Diaz /Badoglio che nel 1918 aspetta un ordine scritto prima di procedere alla offensiva che deciderà della Grande Guerra, ordine tra l’altro non di una figura militare bensì civile come il Presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando che vergò quel suo non lusinghiero telegramma (non lusinghiero ovviamente per i 2 Generali ) “tra l’inazione e la sconfitta preferisco la sconfitta. MUOVETEVI!”  Per difendersi dal piano di invasione,  l’Austria  aveva spostato in Italia il suo più valente stratega l’arciduca Carlo reduce di importanti vittorie su Moreau, che subito si era posto  sulla riva sinistra del Tagliamento  per impedire ai francesi di dirigersi verso Tarvisio. La battaglia venne ingaggiata il 16 marzo, ma l’arciduca non vi si profuse più di tanto, per effettuare anche lui come d’altronde tutti i generali che l’avevano preceduto, una ineccepibile ritirata strategica, laddove divise il suo esercito una parte a difesa ravvicinata di Tarvisio, mentre quella da lui diretta si ritirò verso Gradisca e  Gorizia, inseguito da Bonaparte in persona, mentre Massena avanzava da Osoppo verso le gole di Pontebba. Puntualmente il giorno seguente il 17 marzo  Bonaparte scriveva al Direttorio  per rendere edotto il potere costituito dei suoi effimeri successi e sollecitare il suo oramai ossessivo chiodo fisso che le Armate in Germania si muovessero  “ordinate, vi prego, il passaggio del Reno” implora  “poiché è impossibile che io con 50.000 uomini  possa far fronte a tutto.  L’Armata d’Italia ha cominciato , ma è necessario  che le Armate del Reno  passi  questo fiume  senza perdere un giorno”    Il 21 marzo veniva occupata Gorizia praticamente senza battaglie, il giorno seguente Massena occupava Pontebba;  la situazione sembrava esaltante, ma non è così anzi, Bonaparte non è affatto tranquillo e teme più di ogni cosa l’isolamento, trovarsi nel bel mezzo di territori sconosciuti alla mercè di una controffensiva austriaca, condotta da un generale che conosce per la sua valenzia; Ad accentuare tale paura c’era stata la notizia che  Brescia e Bergamo erano insorte, due città irrilevanti ai fini della guerra, tant’è che lo stesso giorno l’esercito francese era entrato a Trieste, ciò nonostante Bonaparte continua a tempestare di lettere il Direttorio, il 24 e 25 marzo, scrivendo anche personalmente a Carnot “è stato passato il Reno? ” chiede a quest’ultimo  ribadendo  questa sua enorme preoccupazione,  una sorta oramai di leit motive che chiedeva a chicchessia  perché le due Armate  in Germania non  attraversavano il Reno,  sì da poter  cominciare  ad operare la congiunzione con la sua Armata, e quindi lui possa definitivamente abbandonare l’insidioso campo di battaglia italiano Sono conservate  diverse missive  di Napoleone Bonaparte relative a questi giorni di metà e seconda metà di marzo, tutte riportate a nota del libro  di Guglielmo Ferrero e al quale si rimanda, e  ai soggetti più disparati: membri del Direttorio come abbiamo visto, Generali in sottordine, Massena in primis , ma anche Joubert, Bernadotte, Delmas, Baraguay d’  Hilliers, Chabot,  ai quali dava febbrili disposizioni, di occupare questa o quella città, di farsi trovare pronto ad un ricongiungimento con l’Armata, sempre con il fine di abbandonare al più presto la Valle del Po e raggiungere la Valle della Drava con obiettivo Klagenfurth e quindi minacciare a meno di 15 stazioni di posta Vienna si da terrorizzare l’Imperatore. Rimane però quella ossessione alle due armate di Germania che si muovano all’unisono con lui “altrimenti” sottolinea “tutto il mio movimento sarà smascherato e l’Arciduca Carlo lascerà il Reno per piombare contro di me” Oramai è chiaro che non si occupa più di quello che lascia alle spalle, cioè l’infidissimo teatro di battaglia italiano, oramai guarda solo avanti alla realizzazione del famoso Piano del ’95, anche se è consapevole che Vienna potra’ essere solo minacciata, ma non certo attaccata direttamente, però come in una mossa da  bluffeur di giocatore di Poker ritiene che Klagenfurth potra’ essere sufficiente per indurre l’Austria ad avviare trattative di pace. Spinge i suoi generali ad occupare Klagenfurth (manco a dirlo al solito Massena) il 29 marzo e il 30 lo raggiunge,   ma a questo punto “Colpo di scena” :  il 31 marzo scrive una lettera all’Arciduca Carlo  pregandolo di intercedere presso l’Imperatore per avviare trattative di pace . E’ un giocatore di poker, ma non ha retto alla tensione del bluff e cosa degna di nota, per la prima volta non ha seguito le disposizioni del Direttorio; non quindi il troppo ardire, la piena certezza delle sue capacità, una volontà superiore, hanno deciso  la disubbidienza, bensi’ il dubbio, l’indecisione e diciamolo francamente, la paura : paura di andare incontro all’isolamento ed anche al disastro, riportare  una sconfitta decisiva, non del tipo delle scaramucce (con la parziale eccezione di Rivoli) che fino ad allora lo avevano visto vittorioso. C’è anche da rilevare come la teoria di Guibert che fino a quel momento lo aveva sempre favorito, a questo punto della situazione rivela i suoi limiti : se Napoleone fosse stato un Generale dell’Ancien Regime, un Federico II,  anche un Princeps Eugen, non avrebbe mai pensato che una mossa di puro bluff, ovvero una azione  fondata solo sulla audacia, sulla rapidità e sulla sorpresa avrebbe potuto decidere, non di una singola battaglia, ma  di una intera guerra  dove erano in giochi interessi enormi. Avrebbe certamente commisurato che con battaglie vittoriose si può pervenire tregue al massimo armistizi di compromesso, ma mai e poi mai  ad una pace duratura. Bonaparte in quanto generale della Rivoluzione, imbevuto di teorie Guibertiane e con al suo attivo più di una dimostrazione della loro validità,  credeva di aver trovato una formula magica  per vincere la guerra, insomma stava cominciando a scambiare la realtà  per quello che proclamavano i suoi bollettini e per di più con l’avallo, anzi l’enfatizzazione, di  di un potere che per la modalità di come era assurto alla guida del Paese, per la provvisorietà del suo mantenimento, era, diciamo così, costretto a far leva proprio su quelle peculiarità che si rifacevano all’immaginazione, a quello spirito di avventura, che costituisce non a caso il titolo del libro cui ci stiamo ispirando, di cui lui modesto generaluccio si era trovato a recitarne la parte,  spacciato per un novello Alessandro o un novello Cesare, in una sorta di recita teatrale che non aveva mancato di infatuare le masse. Insomma il “facciamo finta che….” aveva funzionato fino allora, ma ora nel momento di scoprire le carte ecco che all’improvviso il primo a venire meno era stato proprio lui, l’attore principale. No, non c’è niente di reale se ci atteniamo al Mito del Generale invincibile e arditissimo, così come era stato confezionato in quell’ultimo anno,  o meglio forse all’improvviso la situazione si fa troppo reale, e il giovane generale si rivela per quello che è, un passabile tattico ma un modesto stratega, asceso senza merito e soprattutto senza la necessaria competenza,  al comando di una grande Armata. Tant’è che il giorno seguente alla richiesta di trattative all’’Arciduca Carlo, la sua preoccupazione maggiore e’ di scrivere al Direttorio per spiegare le ragioni del suo gesto. Come abbiamo detto  fino ad allora Bonaparte  era stato un solerte esecutore delle disposizioni del Direttorio e solo a questo doveva la  sua inusitata e gonfiatissima fama, quindi ovvio e naturale che ora cercasse di , come si dice in gergo , “metterci una pezza” Il 1 aprile difatti spedisce la lettera che tutto ha, tranne che il tono del generale determinato  e sicuro di se “voi troverete “dice” qui acclusa la lettera  che per mezzo del mio aiutante di campo  ho mandato al principe Carlo. Se riceverò risposta negativa  farò stampare la mia lettera  e la sua, se invece  la risposta fosse favorevole e la corte di Vienna  volesse pensare alla pace  assumerò la responsabilità di firmare una convenzione segreta  che potrebbe essere un preliminare di trattato di pace…voi intuite certo che le condizioni che firmerò io  sarebbero assai più vantaggiose di quelle che a suo tempo voi deste al generale Clarke” Ecco torna lo spirito del giocatore di Poker, ma non più al buio, bensì con qualche assicurazione che altri cooperino al suo bluff, torna uno sprazzo di Guibertismo, ma protetto dalla posta in gioco che chiede, anzi impone che ci sia una sorta di copertura. La risposta dell’Arciduca non si fa attendere ed è un rifiuto. Si fa sempre più forte in Napoleone la smania di sapere cosa fanno le  2 Armate di Moreau e Hoche, ma oramai è come obbligato dal suo gioco ed avanza ancora fino a  Judenburg;  la situazione era  tale per la quale, se voleva  conservare un minimo di credibilità  nel  bluff, doveva  continuare ad avanzare, sperando in uno scontro vittorioso che gli desse un po’ di linfa, ma Carlo  glissa e finisce per ritirarsi, lasciandogli terreno  aperto fino a  Neutmark.  Come nella migliore tradizione della scuola militare austriaca si tratta di una perfetta ritirata strategica che rende vane le conquiste, specie in un campo che non è piu’ quello italiano, mentre di converso per il Guibertismo dell’Armata francese rimane solo l’impianto psicologico di spaventare la corte austriaca con l’avvicinarsi a Vienna, ma il 5 di aprile c’è il colpo di scena della richiesta di una tregua che due Generali dell’Arciduca vengono a chiedergli. Ovviamente non gli sembra vero di concedere tale tregua fino al 13 aprile e riprende la litania delle lettere al Direttorio dove oltre alla solita tiritera del perché le due armate in Germania non si muovono,  torna sulla necessità di pervenire ad un armistizio arrivando anche a proporre i territori da concedere all’Impero facendo cenno all’intero Ducato di Milano “se la negoziazione non andasse a buon fine” dice chiaramente “sarei imbarazzato sul partito da prendere, certamente cercherei di attirare il nemico  in battaglia per  batterlo, ma  questo potrà essere possibile solo se le Armate del Reno venissero in mio soccorso, ma se resteranno ferme e inattive, là dove sono tutt’ora, dovrei ritornare in Italia In questi febbrili giornate, datata 18 germinale anno V, ovvero quella stessa giornata del 7 aprile 1797, c’è una importantissima risposta del Direttorio, una lettera molto lunga e articolata nel solito stile possibilista,  dove però per la prima volta si fa cenno alla prospettiva di fondare una nuova Repubblica ad integrazione della Cispadana, che raggruppi  tutti i territori di qua e di là del Po “ecco cittadino generale il piano che dovete seguire, ne deriva  che se qualche circostanza obbligasse il governo francese ad abbandonare le terre di Milano e Mantova all’Austria, per fare la pace, non ne avremmo disdoro….” Vi e’ quindi la solita  sviolinata finale alla grandezza del suo operato, con quel tono possibilista e un po’ scarica responsabilità che ha sempre caratterizzato l’intera politica del Direttorio “Il Direttorio esecutivo si rimette interamente a voi per la perfetta  esecuzione di questo piano: esso è convinto che qualunque sia la soluzione, che voi sarete sempre guidato dal vostro attaccamento  sincero alla Repubblica  che servite e ai principi di libertà, non può diffatti dubitare  dello zelo di cui avete dato prove così chiare  e in così gran copia  Qui mi rimetto integralmente ad un passo del libro di Ferrero che addirittura lo storico  ebbe modo di esaminare di persona  questa lettera la cui minuta si trova negli Archivi Nazionali nel Registro particolare  dei decreti e deliberazioni segrete, pag.97 n.306 .”lo sapevano cosa facevano…” scrive Ferrero “….i 5   Direttori  firmando tale lettera??? Me lo sono chiesto  guardando, non  senza una certa commozione la ingiallita carta della minuta…. di certo no, perché l’importanza di questo documento è enorme e si riverbera ancora nella storia del mondo        .” Necessario a questo punto fare un breve inciso per vedere chi erano questi “Direttori” che  subito dopo il sollevamento contro Robespierre, Saint Just e Couthon, erano ascesi alla guida del Paese e che ora si rendevano i reali protagonisti, anzi i veri artefici di quello che sarà uno degli elementi di maggiore novità del mondo moderno: il primo dei cinque quello che più di tutti aveva contribuito alla caduta di Robespierre, era Paul Barras quarantenne, proveniente dalla piccola aristocrazia, ex ufficiale dell’esercito, dimessosi per un alterco con il Ministro della Marina, un gaudente crapulone, in nomea di frequentare bordelli e case da gioco, pieno di amanti, avido e intrigante, fu  grazie a lui che la carriera dell’oscuro Generale di Divisione Napoleone Bonaparte prese il volo, dato che come regalo di nozze del giovane generale con la sua più ingombrante e pretenziosa delle amanti la creola Josephine Beauharnais vedova di un Generale ghigliottinato dalla Rivoluzione, offrì appunto il Comando dell’Armata d’Italia.  Molto legato a  Barras e altro membro del Direttorio, che nel 1796 ne divenne Presidente  era Jean Francois Reubell un avvocato alsaziano cinquantenne, che aveva fatto parte sia dei Giacobini che del Club dei Foglianti, persona molto ambigua e calcolatore: con tutta probabilità fu lui il principale artefice di quel far recitare la parte del grande condottiero al giovane e inesperto generale,specie in considerazione delle enormi entrate   che lui uomo molto versato negli affari economici, aveva visto affluire nelle  Casse dello Stato grazie alla politica guibertiana di conquiste e razzie operata dal suo nuovo pupillo. La corrente  filo repubblicana di estrazione più giacobina  costituiva la maggioranza e comprendeva anche il molto meno rilevante Larevellier , mentre la destra in odore di “realismo”  che faceva capo a Lazare Carnot,   comprendeva un Generale del Genio  Retourneur,  firmatario della lettera del 7 aprile, ma il mese successivo sostituito dal De Barthelemy, onesto legislatore autore della Pace di Basilea, ma del tutto sprovvisto  di esperienza e acume  politico .Veniamo quindi a Lazare  Carnot classe 1753  senza dubbio il membro più rappresentativo del Direttorio e non solo, ma probabilmente uno degli uomini più insigni della Rivoluzione e dell’intero Paese : insigne matematico, fisico, Generale, aveva svolto un ruolo di primissimo piano in tutta la Rivoluzione, membro del Comitato di Salute Pubblica , era anche stato il grande organizzatore  dell’Esercito repubblicano rivestendo un ruolo decisivo nella costituzione delle armate rivoluzionarie  e financo nella direzione delle operazioni belliche con il suo grado di Generale , tant’è che Napoleone si rivolgeva spesso e volentieri direttamente a lui in merito a questioni di strategia politica e militare : In merito a tutta la tesi di questo scritto, nessuno mi toglie dalla testa che un uomo del calibro di Carnot non ce lo vedo a farsi troppo partecipe della montatura sul nuovo generale e quindi costituire per questi una sorta di continua minaccia  per quella fama acquisita in circostanze così eccezionali e anche manipolate. Non è quindi un caso che il sempre più gonfiato Generale che nell’autunno del ’97 si stava avviando alla conclusione della sua controversa avventura italiana, pensò bene, nella sorta di pronunciamento ordito da Barras e Reubell proprio contro Carnot accusato di Realismo, di prendere la parte dei primi due e addirittura inviare il proprio Generale Augereau  a farsi braccio armato del colpo di stato  e quindi a imprigionare  De Bethlemy, mentre Carnot  fuggì in Svizzera, furono inoltre arrestati un gran numeri di Deputati e i tre Direttori rimasti Barras, Reubel, Ralevellier pubblicarono un Manifesto nel quale dissero che era stato ordito un complotto realista sventato grazie alla vigilanza del Governo e la fedeltà dell'esercito Facciamo quindi ritorno, dopo questo inciso anche un tantino proiettivo  sui membri del Direttorio,  che come abbiamo fatto cenno concepirono la sistemazione del territorio di tutti i territori al di qua e al di la’ della valle del Po italiana, ovvero una chiara nettissima  formulazione della repubblica cisalpina, certo non andando troppo per il sottile sulla composizione di tale nuova espressione politica e demandando al generale Cte dell’Armata la decisività in merito ai territori che dovevano costituirla  e quelli che dovevano invece essere oggetto di baratto per ottenere  la pace con l’Austria.   Una lettera che sfata   un altro dei miti più consolidati  dell’aura napoleonica, e cioè che, lui e solo lui sia stato l’ideatore e il realizzatore, prima della repubblica cispadana, poi della repubblica cisalpina, in altre parole i prodromi  della futura unità d’Italia, dalle cui suggestioni e quindi spirito  e’ rimasto a tutt’oggi il simbolo più celebrato: quello della bandiera tricolore, bianco, rosso e verde, a somiglianza dei colori della Repubblica francese e della Rivoluzione; la novità estrema della lettera del 7 aprile 1797 risiedeva nel fatto che il Direttorio in un melange di consiglio/ordine  sollecitava Napoleone  di creare in italia uno stato cuscinetto della Rivoluzione con la particolare clausola che  non il popolo si dichiarasse sovrano, ma la sovranità doveva essere una sorta di imprimatur della Francia e quindi della Rivoluzione. Era questo il senso della ulteriore “avventura” che l’evoluzione della Rivoluzione stava per realizzare in Italia , e questo bisogna ammetterlo era  di una novità sconvolgente : fino ad allora  nella storia del mondo il principio di legittimità che giustificava il potere era sacro, ma ecco che all’improvviso tale principio era messo in dubbio da una forza anomala che pretendeva di sostituirlo con un altro  principio:  la sovranità del popolo , non disdegnando che tale principio fosse portato sulle punte delle baionette  di un esercito comandato da un più o meno improvvisato condottiero. Ancora una volta assistiamo alla forzatura di un mito che riguarda appunto questo condottiero, la storiografia e anche quel tanto di immaginario storico/collettivo, che non risparmierà quasi nessuno (abbiamo citato l’episodio di Hegel il filosofo dello Spirito che  vuole dopo la battaglia di jena , cioè una decina di anni dopo gli eventi che stiamo affrontando,  andare di persona a veder passare lo Spirito della Storia e cioè lui” le petite Caporal “ come lo avevano soprannominato i soldati ) attribuiscono ancora oggi, l’iniziativa della formazione di questo nuovo Stato al genio  di Bonaparte ammirandola come  una quasi inconscia confutazione del principio di legittimità e una spassionata adesione a quello della sovranità dei popoli, si sono sbagliati . Bonaparte non fu che un esecutore degli ordini di Parigi . In termini pratici, diciamo che le cose andavano mettendosi bene, o meglio bene,  dato che l’Austria aveva chiesto una proroga della tregua  e quindi il bluff sembrava riuscire, il punto però è un altro : gli accorti statisti austriaci, politici ma anche militari, si erano convinti che le proposte di pace avanzate dal generale potevano essere addirittura più convenienti di una vittoria sul campo, difatti scartata la eventualità di cedere  territori in Germania  e la città di Magonza assolutamente incedibili,  perdere il Milanese come la proposta che perorava la costruzione di una nuova Repubblica richiedeva, per un ulteriore  esperimento di plastica rivoluzionaria poteva essere più che accolta se l’Austria avesse potuto rifarsi coi territori della Ex Repubblica di Venezia oramai in mano francese, che tra l’altro erano in uno stato di grande agitazione  e quindi molto propensi a sottrarsi al giogo rivoluzionario ; in verità anche questo fatto delle agitazioni addirittura rivolte aveva spinto sia Napoleone che il Direttorio a prendere in serissima considerazione la cessione all’Austria del Veneto  in cambio di territori in Germania o  in Lombardia. Una delle due proposte di pace difatti  offriva  indennità italiane e le offriva proprio dove l’Austria le voleva nella ex Repubblica di Venezia . Il 15 aprile diciamo che le trattative  andavano  prendendo corpo,nella città di Leoben , con piena soddisfazione austriaca che attirata dal miraggio di annettersi tutto il Veneto, con confine il Tagliamento,  il Friuli, la Dalmazia e l’Istria era disposta a cedere territori anche in Belgio, mentre per Napoleone e il Direttorio si apriva la possibilità di fondare quel secondo stato cuscinetto come ipotizzato dalla lettera di neppure 10 giorni prima .  Militarmente si addiveniva, sempre lì a Leoben  ad una proroga della tregua purchè le negoziazioni  fossero portate a termine in 5 giorni.  Finalmente anche Napoleone sembrava essersi scaricato di tutte le sue tensioni e apprensioni, difatti , per Guibertiano che fosse non aveva in realtà pensato mai di attaccare Vienna, ben sapendo che senza il  congiungimento  con le  Armate in Germania , le sue forze erano del tutto insufficienti ed anzi esposte ad un contrattacco in un territorio sconosciuto.  Il 18 aprile   a Leoben venivano  firmati i preliminari di pace, in una febbrile impazienza da ambo le parti: quella di Bonaparte e  della Francia per quella spasmodica ricerca di una conclusione del conflitto che non inficiasse la recente gloria acquisita dalle sue truppe della Rivoluzione e la fama del suo giovane Comandante in capo e nel contempo desse una continuità a quel concetto di rivoluzione permanente, faro del nuovo principio di sovranità popolare di cui doveva essere emanazione il nuovo Stato della Repubblica Cisalpina, palesemente delineato nella Lettera dei Direttori del 7 aprile,  che veniva appunto creato dall’acquisizione del Ducato di Milano che finiva per annettere anche la precedente entità della Repubblica Cispadana;  da parte   austriaca al fatto di ottenere tutto il territorio della ex Serenissima che rappresentava senza dubbio uno strepitoso successo della sua diplomazia, anche se no  apparentemente della sua Manu militari,   difatti il Belgio e il Ducato di Milano erano ben poca cosa rispetto ad un territorio di 4 milioni di abitanti, appartenente alla più splendida e civile regione  d’Europa, quale era la Sereneissima Repubblica di venezia . Con tale annessione l’Impero  avrebbe acquistato  un’imponente  unità geografica dal Danubio al Po, ergendosi a faro dell’intera Europa. Incredibili  quei preliminari di Leoben, davvero una sfaccettatura di una delle  più  colossali mistificazioni della storia, una mistificazione in verità che assicurava però due principi per alcuni versi antitetici, ma per altri complementari:  Napoleone e la Francia rivoluzionaria si erano , per così dire “calati le braghe” purche’ fosse conservata quell’aura di invincibilità delle Armate della Rivoluzione, l’altisonante retorica dei suoi bollettini di guerra, il Generale giovane e fulmine di guerra e vieppiù quel senso di faro dei popoli e del principio di libertà che metteva in ombra il principio di legittimità dell’Ancien regime, ecco un po’ quello spirito d’avventura quale il titolo dato da Ferrero al suo saggio, che aveva trovato il suo manuale d’istruzione  e d’uso in un libello di venticinque anni prima di un ufficiale francese Guibert che era stato di guida a Napoleone e non solo a lui ma a tutta la classe militare francese, salvo però,  a consuntivo a dover venire a patti coi vecchi tromboni dell’antico ordinamento, che potrà apparentemente perdere tutte le battaglie, ma finisce per vincere la guerra. Cosa importava se nessuno dei Generali Austriaci  poteva vantare una serie impressionante di vittorie come quelle strombazzate e enormemente gonfiate di Bonaparte: sulle infiammate righe dei bollettini non si stava a sottilizzare se Ceva, il ponte di Lodi, Arcole o addirittura Rivoli non erano poi state quelle folgoranti vittorie, ma spesso e volentieri solo scontri con retroguardie tra l’altro sempre accompagnate da perfette ritirate strategiche del nemico, quel nemico che ora però otteneva territori quale mai appena qualche mese prima , nessuno, imperatore, arciduca, feldmaresciallo avrebbe avuto l’ardire financo di immaginare: La repubblica di Venezia non era difatti  un piccolo principato, ma era in Europa il diadema piu’ rappresentativo della tradizione  ed ora con una cessione di cui lo stesso Bonaparte assicurava di occuparsi dei termini formali della concessione, addirittura dichiarandosi pronto ad occupare militarmente la stessa città, per poi cederla all’austria . Insomma diciamo che se il Direttorio era stato responsabile dell’invasione in Italia, come prodromo per un più vasto piano di aggiramento del fronte germanico  e Bonaparte non era stato che l’esecutore dei suoi ordini, ora  il ventottenne generale  è il maggiore responsabile della distruzione della Serenissima, qui difatti fa mostra del suo talento più manifesto,  che no! non è la valenzia nelle armi, nè un particolare acume tattico o meno che mai strategico, bensì una propensione per la macchinazione, l’inganno, la manipolazione di idee e di fatti,  uniti ad uno spirito accumulatore e truffaldino da venditore di fiera: Venezia è solo l’ultimo tassello di una mentalità accaparratrice che magari, ecco non si può dire  di bassa lega, ma anzi di proporzioni fino ad allora inusitate, mentalità e prassi operativa,  cominciata come correlato alle prime battaglie specie dopo l’armistizio di Cherasco, che aveva visto il Piemonte uscire dalla guerra, coinvolgendo con la massima disinvoltura non solo il nemico in armi ma soprattutto paesi neutrali e inermi imponendo gabelle, indennità in denaro e in beni di consumo e artistici. Guibertismo, senza dubbio, ma portato alle estreme conseguenze, pronto a sacrificare qualsiasi principio di eticità, di correttezza, anche di onore, pur di conseguire un risultato utile e non solo utile, ma che potesse essere spacciato per tale.  Certo anche la Corte di Vienna è come se si fosse trovata commensale più che entusiasta al festino dell’accaparramento, specie con la posta altissima della Repubblica di Venezia, come detto lo Stato più prestigioso dell’intera Europa - riprendendo la nostra metafora del gioco del poker :” piatto ricco mi ci ficco” l’Austria fa mostra, o meglio “non mostra” del più raffinato spirito del giocatore. Si racconta  di un Napoleone più tardo,  ai tempi delle famose sfolgoranti vittorie Austerliz, Jena o fatte passare tali tipo Eylau o Wagram dicesse che i regnanti dell’Austria o degli altri grandi Stati dell’Ancien Regime, Russia, Prussia, Inghilterra, potessero perdere mille battaglie, ma non per questo il loro potere sarebbe andato in crisi, mentre per  lui sarebbe bastata una sola sconfitta per essere sbalzato via dalla storia . La monarchia austriaca era uno dei più antichi poteri  legittimi e quindi poteva permettersi il lusso di qualsiasi disfatta. Che le importava di uno, mille , come diceva Napoleone insuccessi  apparenti, tipo Ceva, Lodi, Arcole o anche ora in quella primavera del 1797 , a  Leoben con quei famosi preliminari, di livello diplomatico più che militare? La disfatta apparente  le portava territori che nessuna grande battaglia vinta le avrebbe assicurato e c’era anche il vantaggio  aggiunto  di offrire una più che plausibile giustificazione della pace separata rispetto alle nazioni alleate, sia quelle continentali sia anche l’altro grande Impero oltre manica, ovvero l’Inghilterra.  Come chiosa Ferrero “ Il gioco era fatto la Rivoluzione tramite il suo giovane Generale e la Corte di Vienna  erano d’intesa per sopprimere la Serenissima Repubblica di Venezia  e per far credere  al mondo intero che la pace fatta a spese di questa  era dettata dalla monarchia asburgica che doveva sopperire alle sconfitte riportate sul campo ad opera delle armate della rivoluzione : la più antica ed illustre dinastia d’Europa regalava  alla Rivoluzione  e anche al suo costruito condottiero, che ne avevano bisogno, questi falsi trofei” A riprova del fatto  che tutto questo grande apparente successo non fosse poi una ennesima conferma del detto “non è tutto oro quel che riluce” si annoverano una serie di dettagliate lettere di  giustificazione dei Preliminari di Leoben che Napoleone cominciò ad inviare al   Direttorio  a cominciare dal 19 aprile incentrate soprattutto sulla creazione  di una Repubblica Lombarda  accresciuta del Bergamasco ed anche del Comasco  e di parte del Mantovano e che avrebbe dovuto inglobare tutti i territori della Repubblica Cispadana andando così a costituire la nuova entità della Repubblica cisalpina, così come la famosa lettera del 7 aprile a firma di tutti e 5 i Direttori, aveva caldeggiato. Ovviamente dopo lo zuccherino, l’indubbiamente scaltro e manipolatore Generale non poteva  non  menzionare il punto più scabroso  delle trattativa : “ il governo di Venezia è il più assurdo  e tirannico dei governi” diceva “è fuor di dubbio  che esso voleva profittare  del momento in cui eravamo nel cuore della Germania  per assassinarci : la nostra repubblica non ha nemici più accaniti, e Luigi XVIII non ha amici più devoti, la sua influenza ne sarà molto diminuita  con la cessione all’Austria  e ciò è a tutto nostro vantaggio: così  si legherà l’imperatore d’Austria alla Francia e lo si si obbligherà a fare quanto ci farà comodo”di spiegazione in spiegazioneaparte   finisce per confessare che ha firmato i preliminari di Leoben per salvare l’Armata d’Italia spintasi troppo nel cuore del territorio nemico , non mancando di addossarne la colpa al Direttorio e tornando a lamentarsi che le Armate di Hoche e di Moreau non si erano mosse per dargli man forte. Insomma il canonico tirare il sasso e nascondere la mano, questa  risulta essere un’altra grande prerogativa  dell’ambizioso e permaloso generale. Però ecco che il Generale Clarke, quello i cui tentativi di trattative con l’Austria erano stati stornati, proprio dall’iniziativa di Bonaparte, arrivò a Leoben nella notte del 20 aprile trentadue ore dopo la firma del trattato giudicandolo subito “un disastro”  e lo stesso fecero nei giorni seguenti i membri del Direttorio la cui cessione di Venezia parve inaccettabile. Purtuttavia in ispecie nell’area più rivoluzionaria capeggiata da Barras e  Reubell  si fece strada l’idea dell’accettazione . Per un attimo solo per una attimo il Direttorio aveva intravisto l’inganno, ma poi si decideva di avallare i preliminari in nome di una ragion di stato con sottesa la speranza che la costituenda Repubblica Cisalpina potesse essere il baluardo di uno stato cuscinetto tra Francia ed Austria e addirittura potesse essere il prodromo  di una Italia libera ed unita, un ulteriore grande Stato Nazionale secondogenito della Grande Rivoluzione.  Va notato che in questo stesso periodo  (aprile 1797)  c’erano state elezioni nel Paese che avevano portato ad un rafforzamento dell’area  moderata, quella  in odore anche di Realismo e che faceva capo a Carnot, il quale nel maggio era riuscito a far nominare a Presidente del Direttorio il nuovo membro De Barthelemy;  cio’ aveva quindi portato l’area più di sinistra degli altri tre membri Barras, Reubell e  Larevallier ad accentuare  la propensione verso l’area militare ed in particolare verso Bonaparte  e quindi anche ai preliminari di Leoben e all’idea di costituzione di una nuova grande Repubblica nel nord Italia. Di tal guisa dalla negazione e il quasi interdetto, l’area di sinistra era passata in pochi giorni alla più entusiastica delle conferme ed anzi in  più di una missiva  si sollecitava  Bonaparte perché   organizzasse immediatamente la nuova repubblica senza neppure  aspettare la conclusione del trattato definitivo. Tale portamento doveva  accentuare a dismisura la incrinatura interna  del Direttorio, ma intanto, dopo la firma del trattato tra Bonaparte e Venezia il 19 maggio che di fatto sanciva il passaggio all’Austria, proprio secondo le modalità che questa desiderava, sempre lui il grande condottiero ora si trasformava in un moderno Cincinnato, che dopo cotanto agire ricercava solo una pausa  delle sue fatiche e quindi accettava l’offerta della potente famiglia Crivelli   di ritirarsi  a Mombello  nella loro sontuosa villa per passarvi l’estate. Anche questo rientrava a tutto tondo di quel “costruire una parte” : dopo la fatica il riposo, si da distrarre l’opinione generale che il trattato di pace con l’Austria spacciato per un grande successo, era in realtà un trionfo di proporzione colossali si per la Casa Imperiale. Ora abbiamo visto perché Barras Reubell e anche Revallier  potessero essere indotti a cavalcare la tigre ed anzi a  continuare a tessere le lodi  del loro pupillo, ma Carnot e in parte anche il nuovo De Barthelemy che pure era il nuovo Presidente del Direttorio no. Carnot era troppo intelligente, troppo colto e troppo smaliziato ed esperto per cadere in  una simile  trappola proto mediatica; ho ipotizzato che probabilmente mai uno come lui possa essere stato coinvolto nella spregiudicata costruzione di un personaggio fittizio, diciamo pure teatrale, avendo preso il reale per una sorta di palcoscenico dove far muovere il burattino di turno. Se ci adesione ci fu, essa era stata dettata dall’ingente afflusso di beni nelle casse del Direttorio che in qualche modo compensavano l’andamento disastroso delle politiche economiche e finanziarie dello stesso Direttorio , anche se questo comportava, e di certo Lazare Carnot insigne matematico e per di più Generale lui stesso, addirittura il costruttore, l’organizzatore della macchina militare della Rivoluzione, lo sapeva meglio di qualsiasi altro. Però ora dopo il disastroso, anche se ben mascherato, esito di tutta la campagna d’Italia che consegnava all’Austria la regione più ricca e splendida d’Europa, in cambio di una  repubblichetta gemella della Francia della cui influenza ancora non era dato  ipotizzare alcunché  e con una  sorta di concessione Imperiale di non sbugiardare tutto l’andamento di quella stessa campagna, e far finta di passare per sconfitta, forse era il caso di non stare più zitto. Era ovvio e naturale che questo non stare più zitto si sarebbe appuntato in prima battuta proprio  sulla più  roboante delle mistificazioni : del fare di uno sconosciuto e anche inesperto generale un novello Cesare, di aver fatto passare delle scaramucce con retroguardie per delle grandi vittorie, di cercare di contrabbandare  un cocente smacco diplomatico per un trionfale successo, ecco era questo,  proprio questo che un parvenu come il generale Napoleone Bonaparte, l’attore di tutte queste recite, non avrebbe mai tollerato. Diciamolo francamente, tutti noi studiando sui libri di storia anche abbastanza specifici, siamo stati soliti non porre questo grande distinguo nel periodo analizzato: in genere dopo la battaglia di Rivoli si ha avuto la tendenza  a fare un bel saltino fino al trattato di Campoformio, quasi che i mesi primaverili, estivi ed estivi di quel 1797 siano stati la logica ed anche un tantino scontata continuità dei  tanto strombazzati fatti d’armi dei mesi precedenti. Addirittura il film Napoleon di Abel Gance chiude alla prima ventilata notizia delle scaramucce di Dego, Millesimo o allo scontro di Cairo Montenotte (scontro non battaglia e con protagonista Massena non Bonaparte): sono quasi certo che se nella cinematografia  non fosse entrato in scena il sonoro e Gance avesse potuto realizzare la sua seconda parte del film, avrebbe enfatizzato solo l’armistizio di Cherasco, sorvolando sulle battute di arresto a Ceva, financo al ponte di Lodi o ad Arcole per riprendere la sua cinepresa sul campo di Rivoli e di volata a Campoformio. La storia ha fatto lo stesso, una storia non approfondita  e  circostanziata quale invece  si evince dal saggio che ha dato ispirazione a questo scritto del più volte citato Guglielmo Ferrero. Al contrario i fatti che si susseguono in quella primavera estate sono molto ma molto più rilevanti delle scaramucce e anche diciamolo delle ruberie operate dallo spregiudicato generale comandante in capo dell’Armata d’Italia che forse l’unica nota di distinguo dal solerte esecutore di piani altrui, va individuata nella particolare abilità nel mettere in atto uno spregiudicato operare in battaglia, o meglio di concerto alle battaglie, secondo le disposizioni di un trattatello di venticinque anni prima di un semisconosciuto ufficiale francese (Guibert) che si rifacevano ad un perfezionamento  e ad una accentuazione della particolare strategia e soprattutto logistica  delle compagnie di ventura dei secoli XIV e XV incentrate sulla razzia dei territori di volta in volta occupati, senza alcuna distinzione tra stati nemici o neutrali.     Ma ecco che all’improvviso quella che è stata tramandata una estate senza apprezzabili novità, né scosse, quasi un automatico scivolare verso il trattatto di Campoformio,  nel suo appropinquarsi riservava grossi colpi di scena , difatti sul finire di maggio era insorta Genova domandando a gran voce una costituzione tipo Repubblica francese e anche cispadana e quella in fieri della Cisalpina . Grossa bega per Bonaparte che di certo non aveva nessuna voglia di  di prendersi sulla schiena la responsabilità di una nuova repubblica e quindi si limitava ad una generica accettazione di una nuova costituzione analoga a quella delle Repubbliche citate ma  sempre presieduta dal Doge in carica . Mentre quindi cercava di svincolarsi da questa nuova magagna e si adoperava per l’organizzazione della Cisalpina, ecco che il 19 giugno  arrivò il classico fulmine a ciel sereno : la Corte di Vienna invece di convalidare le pur favorevolissime clausole dei preliminari di Leoben (riva sinistra del Reno, Passau, Salisburgo, Repubblica di Venezia, linea dell’Adige) chiedeva una convocazione a Berna di uno speciale Congresso, cosa che fece non poco infuriare Bonaparte, ma cosa molto più importante accentuò lo scetticismo oramai diffuso del Paese verso il partito Rivoluzionario.  Uno scetticismo che certo il tira e molla della situazione in Italia e soprattutto le ultime vicissitudini non più militari, ma diplomatiche , alimentavano spingendo la gente a farsi domande in merito alle avventure vissute in tutto quell’ultimo anno e mezzo  che probabilmente non era il classico “tutto oro quel che riluce “ Ho ipotizzato che una persona come Lazare Carnot , uno della sua poliedrica cultura, della sua intelligenza , della sua esperienza, fosse senza dubbio l’ultima persona che poteva essersi fatto trascinare dalla sorta di enfasi collettiva al seguito di dubbissime vittorie campali ed anche dello spregiudicato comportamento del Generale comandante in capo dell’Armata, più simile a quello di un brigante di strada (bhe ammettiamolo di molte strade) o di un bucaniere, che di un Signore della guerra; quindi era chiaro che su Carnot  e sulle sue sempre più pronunciate perplessità, che lasciavano intendere dei propositi Realisti di controrivoluzione,  facessero  corpo  in seno al Direttorio,  non solo le opposizioni più estreme di Barras e Reubell, ma soprattutto fuori del Direttorio,  proprio la voce degli eserciti , o meglio dei loro più o meno improvvisati Generali  (anche Hoche era ad esempio un ufficiale coetaneo di Napoleone che come lui aveva fatto una fulminea carriera ) che erano quelli che, dovendo il loro grado proprio alla Rivoluzione,  più di tutti avevano da temere da una sollevazione Realista.   Era sempre più esigua la parte della popolazione francese, specie quella più colta e intelligente, che continuava a credere nelle farse dei bollettini di guerra, degli infiammati proclami  di cui indubbiamente Bonaparte era maestro, e invece  cominciava a propendere per una verità molto meno romantica e avventurosa, ma più aderente ad una realtà concreta :  c’erano state tante battaglie dal marzo dell’anno precedente, ma queste non avevano certo portato a nessuna vittoria definitiva, né tanto meno l’Austria era stata battuta, anzi a ben vedere e i preliminari di Leoben parlavano chiaro, era di fatto la vera vincitrice:  si prendeva la storica, prestigiosissima e ricchissima Repubblica di Venezia, al posto di qualche cessione territoriale in Lombardia  per la creazione di razzaffonate Repubbliche popolari che, uno come Carnot ad esempio,  sapeva bene che non sarebbero durate più dei giorni  tra Santo Stefano e San Silvestro. In quanto poi a questo novello Alessandro, a questo stratega alla Giulio Cesare ? su cosa poggiavano queste sue qualità? :  su qualche scontro con retroguardie, tra l’altro neppure ben condotte, che avevano visto un molto più proficuo intervento dei suoi Generali sottoposti, primo fra tutti Massena,  e in seconda battuta Augereau, piuttosto che lui (a Cairo Montenotte , a Lodi, sul Mincio,  ad Arcole, a Castiglione  e perfino a Rivoli;  Bravo anzi bravissimo ad applicare alla lettera le strategie di razzie, ruberie e assoluta mancanza di etica morale di condotta di guerra, come teoricamente ipotizzato da un ufficiale della precedente generazione in un suo libello del 1773, un certo Guibert di cui però il più informato cultore era un altro dei suoi generali in immediato sottordine, il parecchio più anziano Serurier  classe 1742 che il Guibert lo aveva conosciuto personalmente. Tutto questo Carnot lo sapeva al massimo grado e quindi ne costituiva il polo d’attrazione, ed ecco perché Bonaparte con il classico “io so che tu sai che io so“ doveva essere il generale che più di tutti  aveva da perdere in caso di colpo di stato realista e quindi il più propenso ad impegnare tutte le sue forze per scongiurarlo e favorire invece il partito della Rivoluzione. Il 29 giugno glissando sulle contrarietà di Vienna ai preliminari di Leoben, aveva accelerato i tempi per la costituzione della Cisalpina con capitale Milano  e quasi un mese dopo vi aveva fatto confluire le Delegazioni Pontificie di Bologna, Ferrara e Ravenna . Si dovra’ comunque aspettare il trattato di Campoformio il 17 ottobre  perché l’Austria riconoscesse ufficialmente la nuova Repubblica, permettendone l’annessione dello Stato del Mantovano e i territori veneziani tra l’Oglio e il Benaco  e della Valtellina, avendone in cambio la Repubblica di Venezia, il cui trattato sancì il passaggio dalla Francia all’Austria   Per l’intanto nel luglio 1797 la situazione interna della   Francia  si andava incanalando verso lo scontro e andavano prendendo sempre più corpo le avvisaglie di un colpo di Stato realista facente capo a Carnot e al nuovo Presidente del Direttorio De Barthelemy che ne era una emanazione . Il 14 luglio la commemorazione  della Presa della Bastiglia di 8 anni prima  fu quasi del tutto  disertata dalla popolazione di Parigi, di concerto però si moltiplicavano le proteste dell’Esercito che proclamava la propria fedeltà alla Rivoluzione e dichiarava la propria indisponibilità a sostenere qualsivoglia sollevamento in senso Realista e Cattolico. Come abbiamo visto il Comandante dell’Armata d’Italia era il generale che più aveva da perdere da una simile eventualità ed  era quello più minaccioso che difatti utilizzava un altro dei suoi indubbi talenti, quello di  lanciare infuocati proclami ai soldati perché fossero di monito ai governanti e al popolo tutto : quello stesso giorno dell’anniversario della Bastiglia, quasi a contrappunto della tiepidezza cittadina della commemorazione , difatti ecco che si produceva in uno dei suoi roventi discorsi “la patria non può correre pericoli” tuonava “gli stessi uomini che l’hanno fatta trionfare, ne preparano la rovina….”delle montagne ci separano dalla Francia : le valichereste  con rapidità dell’aquila se occorresse di salvaguardare la Costituzione!” Il giorno seguente 15 luglio,   Bonaparte  traduceva il vago appello alle sue truppe in una  precisa missiva al Direttorio dove  invitava chiaramente la parte repubblicana a servirsi dell’esercito per  eliminare i tentativi di colpo di stato “ distruggete l’opposizione con le nostre baionette!” intimava. Tutto il restante  mese di luglio ed agosto si mantenne su questa duplice possibilità e la cosa finì per arrivare alle orecchie dei diplomatici austriaci che cominciarono a utilizzare il pretesto di una revisione dei preliminari di Leoben,  puntando sulla parte di una vittoria del partito Realista che senza dubbio sarebbe stato molto meno intransigente in quanto a concessioni . Bonaparte aveva accettato una conferenza a Udine per ridiscutere di alcuni punti, ma nel contempo aveva mandato a Parigi il più roboante e genuino giacobino dei suoi sottoposti, ovvero il Generale, ma ex popolano, ex soldato di ventura, ex sottufficiale, ex  disertore, ma anche indomito e audacissimo comandante  Pierre  Augereau,  perché si mettesse a disposizione di Barras, Reubell e Larevellier per appoggiare ogni tentativo controrivoluzionario . Grande grandissima incertezza in quei roventi giorni estivi, altro che la calma quasi piatta e di ratifica delle trattative come una certa storiografia ha voluto farci intendere. Tra l’altro  in merito alla conferenza di Udine oramai gli austriaci glissavano in attesa che si verificasse quell’auspicato colpo di stato e quindi il suicidio della Rivoluzione, mentre Bonaparte era sempre più in tensione perché sapeva che non avrebbe potuto riprendere la guerra (impensabile una ripresa della teoria Guibertiana)  e nel contempo era preoccupato per la piega che potevano prendere gli avvenimenti. La piega delle trattative era sempre sullo strappare qualche pezzo in più di concessione, sopratutti in Belgio e sulla riva del Reno che in Italia dove i giochi erano oramai fatti, tanto più che sul fronte interno francese, i tre Direttori della Rivoluzione,  forti dell’appoggio di Augereau, si decisero finalmente ad agire  per un colpo di stato si, ma di tendenza opposta a quello Realista e nella notte tra il 3 e 4 settembre 1797  arrestarono  54  deputati di tale fazione compreso il Presidente  per spedirli alla Guayana , mentre  Carnot riuscì a fuggire in Svizzera .  Napoleone, rassicurato dalla eliminazione della fazione che sempre più era andata mettendo in dubbio le sue vittorie e  che aveva contestato  le trattative di Leoben  tornava ad essere lo spregiudicato giocatore di un tempo, riacquistava quindi la sua sicurezza e diciamo anche la sua arroganza, in parole povere tornava di colpo il novello Alessandro, il conquistatore d’Italia , l’invincibile mentre di converso  i plenipotenziari austriaci con la brusca interruzione della soluzione Realista  in Francia , convenivano che oramai era il caso di adoperarsi per una pace, ovviamente cercando di prendere  i maggiori vantaggi possibili . A questo punto si andava diritti verso lo spirito del Trattato di Campoformio che fu firmato nella Villa Manin di Passariano  il 17 ottobre 1797 dal generale Napoleone Bonaparte  comandante in capo dell’Armata d’Italia  e dal Conte Johan Ludwig Josef von Cobenzl  in rappresentanza dell’Austria:  non si creda anche nei 10 giorni che portarono alla firma  non mancarono le estenuanti discussioni per qualche briciolo di territorio, ma oramai le parti erano più che stabilite:  un Napoleone sempre più tracotante e una Austria sempre ben disposta a fargli credere di esserlo e quindi lasciarlo fare, purche ‘ non venissero inficiate le clausole che la portavano ad un aumento di territorio, prestigio e ricchezze senza pari. Non c’era più Carnot che forse era l’unico che potesse smascherare sia questa messa in scena, con tanto di gioco delle parti sia dei preliminari di Leoben che della loro ratifica a Campoformio, così come con tutta probabilità, era l’unico che conoscesse la verità sulla messa in scena delle scaramucce trasformate in grandi battaglie  con l’eccezionale gonfiatura di carriera del giovane generale Bonaparte. Sara’ a questo punto opportuno fare un consuntivo di tutta l’avventura della Campagna d’Italia del 1796/97, consuntivo che induce altresì ad un meccanismo proiettivo sulla straordinaria avventura “a-venire” del personaggio, come abbiamo visto piuttosto mediocre (da tutti i punti di vista anche quello specificamente militare) e ben provvisto di tutta una serie di spregevoli difetti, tipo l’opportunismo, la assoluta mancanza di parola, lo scendere a compromessi, la manipolazione della realtà, l’inventare di sana pianta dei copioni e delle parti senza alcuna relazione con la realtà, insomma proiezioni che si fanno identificative rispetto ad una società che sta uscendo non tanto da una sanguinosa rivoluzione sociale, quanto da una ben più informante rivoluzione di mercati e mezzi di produzione, con la introduzione e lo sviluppo dell’invenzione della macchina, da semplice mezzo di aggiustamento  del lavoro a vero e proprio nuovo referente dell’essenza stessa della vita umana. Come abbiamo spesso osservato,  la macchina che si sostituisce come riferimento all’Uomo e lo espropria con i suoi meccanismi di  costruzione, assemblaggio, sostituzione, rinnovo e anche demolizione, delle sue  prerogative, impone  meccanismi di identificazione proiettiva, ma anche controbilanciati meccanismi di ricerca di un arche’ (una origine) non solo a livello tecnico (archè-techne’), ma  “tipico” cioè di decentramento dell’uomo, proprio come tipo di riferimento  dell’essere al mondo, per i  quali, a dire il vero bisogna andare molto a ritroso del tempo per trovarne un barlume: difatti quello che oramai va conformandosi come macchina, con tutto un bagaglio di cultura ad essa collegato che si definirà tecnologia, ma anche più pomposamente scienza, lo ritroviamo pochi decenni prima nella Religione coi suoi dogmi, il suo dio unico cattivo, geloso e permaloso e soprattutto il suo senso di peccato da appiccicare giustappunto all’uomo (anche qui quindi proiezione con tanto di scissione proiettiva tra l’uomo e in sostanza un’altra sua creazione, che possiamo anche denominare “alienazione” e constatare che Marx non si era inventato un bel niente, perché da sempre l’essere umano ha innescato nel suo cammino un meccanismo di alienazione :  la macchina con la sua versione odierna del digitale, dell’informatico e la totale robotizzazione della sua mente, è difatti solo la logica evoluzione  del peccato per la Religione, del senso onnisciente di uno Stato per la Roma imperiale, ma anche repubblicana e persino monarchica,della frammentazione di tale principio per la coltissima e raffinata civiltà greca  con le sue Città Stato, Atene, Sparta, Tebe, Corinto e persino le sue colonie (Magna Grecia) . Si viaggia a botta di millenni e l’uomo come precipua essenza di essere al mondo  non lo troviamo mai! -  anche il futuro anteriore quel “sarà stato “ che dovrebbe correlare la somma di tutte le esperienze e tradizioni in vista di un “ad-venire” è sempre demandato, è sempre “al di là” ecco tutt’al più lo possiamo trovare in qualche giochetto di parole tipo il “geo-methrés” della scuola di Atene, l’enantiodromia di Eraclito dove si inserisce quell’inquietante “panta rei” o l’aforisma di Protagora come “misura di tutte le cose” , lo possiamo trovare nel Mito, come nel più suggestivo di tutti i Miti, quello dell’Età dell’Oro, cavallo di battaglia del poeta Esiodo,  ma mai nella storia reale. Ci viene in aiuto la teoria delle stringhe, anzi delle Superstringhe con tanto di quella M-Theory, dove si va alla ricerca del  senso, classico significato su significante  alla De Saussure) di quella “M” che si presta ai più fantasiosi costrutti (Magia, Mistero, Multiuniversi, etc.) , ma neppure un po’ la pretenziosa arroganza di un filosofo che si e’ arrogato l’epiteto di filosofo dello Spirito della storia, che spocchiosamente sosteneva l’identità tra reale e razionale e quello “Spirito” bontà sua, era convinto di aver riconosciuto nel trovarsi casualmente al passaggio proprio di quel personaggio che è oggetto, neppure un po’ ideale né tanto meno paradigmatico, di tutto questo scritto. Abbiamo appurato che l’intera campagna d’Italia  era stata studiata a tavolino da un gruppo di giovani generali tutti impregnati della teoria  tattico/strategica e soprattutto logistica di un ufficiale francese Guibert morto nel 1790,  che un  25 anni prima  aveva scritto un manualetto di nuove modalità di fare la guerra, tutto improntato al massimo ardire, addirittura al colpo di mano, velocità, niente carriaggi, niente magazzini, niente salmerie, artiglierie leggere  e soprattutto di una alimentazione della guerra con razzie e gabelle imposte ai territori di scontro e di conquista: Tale piano  commissionato dal Direttorio, prevedeva che l’Armata d’Italia che fino a quel momento non aveva fatto granchè e se ne stava quasi inoperante sulle Alpi marittime operasse una vera e propria manovra aggirante in soccorso alle due Armate  schierate tra Belgio e Germania  sulla Mosella e sul Reno, e neppure alla lontana prevedeva che ci si sclerotizzasse sul territorio italiano.  Piuttosto rocambolescamente il comando di quell’Armata era andato nel marzo del 1796 ad uno di quei generale guibertiani, non il più bravo, non il più titolato e di certo non il più capace,  anche se i suoi 27 anni potevano lasciare intendere chissà quali meriti per una fulminea carriera, che invece era nella norma, dovuta per lui come per molti altri  all’eccezionale periodo di cambiamenti di regime che vi erano stati dall’inizio della Rivoluzione . Semmai il merito del giovane generale, che aveva anche l’aggravante di non essere francese, ma corso, era di tutt’altro tipo  e cioè quello di avere accondisceso a sposare l’amante del più influente membro del Direttorio, Barras, una amante c’è da dire ingombrantissima e pretenziosa  quale la creola Josephine Beauhrneais , vedova di un Generale ghigliottinato dalla Rivoluzione, che a Barras non era sembrato vero di togliersi dai piedi. Un vero e proprio “regalo di nozze “ dunque, questo comando di un’Armata, invero  scalcinata e non troppo affidabile che tuttavia annoverava alla guida   non uno ma tre Generali, tutti dotati di grandissima esperienza,  poco disposti a collaborare tra di loro, ma come vedremo, quasi in attesa,  di una mente direttiva  di un superiore cui fare riferimento e affidamento. E’ piuttosto noto come sulle prime il nuovo venuto  non ebbe questa grande accoglienza e ho citato un pezzo del film Napoleon di Abel Gance, dove i tre all’entrata del  superiore nella tenda/comando, gli voltarono le spalle non togliendosi il cappello. Ma ecco qui vale un po’ di psicologia . I tre erano ognuno pel suo verso soldatacci anche loro saliti ai vertici della gerarchia militare grazie alla Rivoluzione:  Massena e Augereau che erano due ex sottufficiali, il secondo addirittura un disertore e soldato di ventura in vari eserciti europei, il terzo Serurier un relativamente anziano ufficiale di basso grado  dell’Ancien regime che la rivoluzione aveva fatto lievitare fino ai galloni di Generale soprattutto per via della sua straordinaria competenza delle teorie di Guibert che aveva più volte cercato di mettere in opera, al contrario il giovane Bonaparte era un ambiziosissimo giovane  militare che non andava tanto per il sottile sul modo di come far carriera e la Rivoluzione gli era subito sembrata una straordinaria occasione per favorire certi suoi disegni Si era distinto a Tolone qualche anno prima nell’autunno del 1793 come ufficiale della sua arma specifica l’artiglieria, ma checché se ne dica il merito principale della cacciata degli Inglesi dal porto francese era stata del Gen. Dugommier non sua, tuttavia nel dicembre si era guadagnato la promozione a Generale di Brigata e cosa ancora più importante la protezione del deputato Barras che aveva intravisto negli occhi e nello spirito del neo generale  quel qualcosa in più a livello di ambizione, cui la sua disponibilità ad accettare qualsiasi compromesso era quello che andava ricercando in qualsiasi ambito , specie dopo essere stato lui Barras il principale artefice della caduta di Robespierre e il più influente membro del nuovo organo di Governo. Il giovane Bonaparte aveva avuto una imbarazzante familiarità col fratello di Robespierre  e per questo, dopo il luglio del 1794  sembrava che la sua carriera dovesse subire un drammatico arresto, ma Barras aveva intravisto nel giovane quello sguardo “pronto a tutto” soprattutto per i suoi fini e lo aveva dapprima coinvolto nella Commissione per la stesura del Piano per l’Armata d’Italia,  e improvvisamente nell’ottobre 1795 essendoci stato un sollevamento Realista che minacciava la Convenzione Nazionale  lo nominava Comandante della Piazza di Parigi con l’incarico di scongiurare un colpo di Stato. E’ la famosa strage della Chiesa di san Rocco in cui il generale Bonaparte coi suoi cannoni,  coadiuvato dalle cariche di cavalleria del  baldanzoso Colonnello Gioacchino Murat, domò spietatamente la rivolta ricevendo in cambio la promozione a Comandante del Corpo d’Armata dell’Interno. La fiducia del suo influente protettore era oramai definitivamente conquistata, aggiungi poi che di lì ad un paio di mesi  gli toglieva per sempre  anche l’imbarazzo di una ingombrante amante di cui  quello desiderava disfarsi…eh bhe la nomina a comandante d’Armata e nella fattispecie l’Armata d’Italia,  era  assicurata.    Si diparte  quindi tutta la serie di vicende che abbiamo circostanziato : un Piano sempre condotto dal Direttorio, di cui il giovane Generale eseguirà alla lettera le disposizioni senza alcuna variante personale, i Generali più esperti che vincono al posto suo, la fortuna di determinate circostanze pregresse come il contrasto tra Austria e Piemonte che porteranno ad un provvidenziale Armistizio con una delle parti belligeranti, ancora qualche battaglia, poco più che scaramucce con retroguardie nemiche, pomposamente  gonfiate come grandi vittorie (Ceva, Lodi, Arcole), una puntuale applicazione della strategia Guibertiana, di cui ecco in questo si, Napoleone era riuscito a metterci qualcosa in più di esclusivamente suo (la spregiudicatezza nell’imporre gabelle, di razziare non solo beni di sussistenza, ma anche tesori e patrimoni artistici ) ed infine un tira e molla tra il teatro di guerra della Valle del Po e quello di un accenno di invasione in territorio austriaco,  per addivenire ad un armistizio con l’Impero Asburgico che potesse essere fatto passare, come le battaglie, per una sorta di grande trionfo per la Francia e la Rivoluzione, ma che in verità aumentava a dismisura il potere e l’influenza austriaca soprattutto per l’annessione della Repubblica di Venezia . In realtà non solo il trattato di Campormio non rappresenta una vittoria per la Rivoluzione e i suoi principi, ma alle lunghe, malgrado l’apparenza,  non rappresenta quel grande trionfo neppure per il Generale Bonaparte, perché lo costringerà, anche una volta preso il potere assoluto della Francia e divenuto  Imperatore dell’effimero Impero da lui costruito, ad un quasi permanente stato di guerra  che non avrà mai fine se non con la sua disfatta senza appello : ci fu un momento più tardo in cui lo stesso Empereur lo confessò ora non ricordo se a Berthier o a Tayllerand o forse a Massena, che a parte Desaix a Marengo, era forse il sottoposto a cui doveva di più in quella costruzione di parte che era stata l’elemento saliente della sua scalata al potere : “L’Imperatore d’Austria, lo Zar di Russia, il Re d’Inghilterra, tutti i Reali del più piccolo statarello europeo “ aveva detto con amarezza ma anche rassegnazione “possono perdere mille battaglie, ma risorgeranno sempre più forti di prima; io al contrario debbo sempre vincere e sono convinto che alla mia prima vera sconfitta non avrò alcun appello” Centrato in pieno il problema che se vogliamo essere lucidi sta un po’ scritto tra le righe di quel famoso trattatello che era stato la Bibbia per il Generali della Rivoluzione e per lui in particolare , ovvero quel Trattato di  Tattica di Guibert, che indicava si una modalità di successo immediato, ma assolutamente non precisava alcun termine di continuità a quell’azione e soprattutto


IL CAPOVOLGIMENTO DEL FUTURO ANTERIORE

il Wall Street Journal ha riportato un rapporto del governo Usa dove si afferma che "GLI STATI UNITI STANNO CAPOVOLGENDO LA STORIA, ...