domenica 19 settembre 2021

LA STRADA DI CASA

Andiamo sul soggettivo, anzi sul personale, super-anzi : sull'intimo.  La nazione, la città,  e spesso e volentieri anche il quartiere, la strada dove si è nati , hanno per lo più, una rilevanza particolare nella storia della nostra vita  e ne costituiscono una sorta di paradigma a proposito delle “visioni del mondo” . Sembrerebbe  a primo acchitto  una  visione  strettamene soggettiva, contingente e particolareggiata, affettivamente coinvolgente e suscettibile di interpretazioni  che possono essere sia positive che negative, ma come vedremo  si carica, si può caricare di valenze che mettono “in gioco”  elementi  quanto mi oggettivi, a volte addirittura “universali”  Di solito il rapporto col proprio luogo di nascita e dove si è cresciuti, in particolar modo nell’infanzia, ha un’ulteriore valenza di significanza, Jung ha parlato di “numinosità” e Freud..., bhe Freud ha definito l’infanzia il paradiso terrestre di ciascuno di noi, “somiglia all’eternità l’infanzia”...con il suo tempo dilatatissimo quando un giorno durava quasi all’infinito e il sole in cielo sembrava non voler tramontare mai…  e non solo, ma topicamente,  il mondo, tutto il mondo era lì sotto il balcone e bastava allungare una mano per afferrarlo tutto. Forse per questo tutte le cose che rientrano, che facciamo rientrare nell’infanzia,  hanno un carattere quasi magico!  Ecco!!!! ha ragione Jung … “numinoso” dove le cose, le immagini, le persone, i fatti, anche i nomi, sono come “numi”, un che di divino che assorbiamo dentro di noi  e quindi si rivestono di entusiasmo “en Theos”. Il nome della strada dove siamo nati e cresciuti e magari abbiamo vissuto la nostra infanzia,  si carica di tale entusiasmo e anche quando quella è solo un ricordo sfumato:  è sufficiente richiamarlo alla memoria per accedere a tutte le sensazione relative di entusiasmo e numinosità . Chiamare per nome, significa, diceva qualcun altro,  “evocare, chiamare in assenza”: siamo cresciuti, diventati grandi, il sole non sta più la’ in cielo solo per noi, i caschi di glicine non si inchinano più al nostro passaggio , e il balcone, si il balcone non ha più l’altezza dell’Olimpo  dove dimoravano gli antichi dei, però quel nome, con tanto di targhe toponomastiche, via dei matti numero zero, rue de l’ancienne comedie, zlata ulice, marienburger strasse, charing cross road, si caricano tutte  di valenze di un fascino misterioso  che si rivolge solo a noi.  Succede a volte che il nome di tale strada è un nome che per una serie di circostanze viene ad assumere valenze più composite dove magari la suggestione propria della numinosità dell’infanzia si coniuga  a  questioni di conoscenza e interesse. E’ il caso dell’autore del presente articolo  Mario Nardulli  che la strada della sua infanzia si chiamava Nicolò V: mai durante l’infanzia ci si era soffermati su tale nome, forse a mala pena si sapeva che trattavasi di un Papa; via Nicolò era la strada dove la famiglia si era stabilita assai prima della sua nascita, nel 1938, quando il suo omonimo Mario Nardulli che era

un funzionario dell’Opera Nazionale per i Combattenti (O.N.C.)  l’Ente che si occupava delle Grandi Bonifiche, dopo anni di vagabondaggio per varie cittadine sulla scia di quei lavori, da Licola al Lago Patria, a Littoria, a Sabaudia, e anche i richiami da ufficiale superiore che lo avevano portato in Africa orientale durante la campagna
del ‘35-36  con la Divisione Alpina Pusteria e anche in quella settentrionale (Libia) dove aveva comandato i Presidi di Giado e Gadames  giurisdizione del XX C.d’A. Div. Sabrhata, colpito dal quadro di Picasso “Guernica”  non si era fatto rassicurare dalla cosidetta “pace” salvata (si fa per dire) da Mussolini alla Conferenza di Monaco, e convinto che prima o poi una guerra sarebbe comunque scoppiata, aveva scelto di stabilirsi in una zona vicino al Vaticano “così staremo certi” aveva detto alla moglie e al figlio Lucio ”che  nella città del Papa non bombarderà nessuno!”
Proprio Guernica  e anche
certi raid sulle città dell’Etiopia, di cui aveva valutato “de visu”  la distruttività sulle popolazioni civili, lo avevano indotto a tale risoluzione “la guerra non sarà come quella passata” diceva ” che il rombo del cannone lo si poteva sentire da Verona, da Marostica da Udine o Monfalcone, ma mai shranpels  o i colpi di cannone erano arrivati a lambire il centro abitato….”la prossima sarà una guerra che coinvolgerà  tutti, non solo i soldati al fronte”. Via Nicolò V aveva questa origine, di cui  il nipote aveva sentito più volte, ma che per lui era la palazzina giallo ocra al numero 50 con la contigua gemella, interrotta da una discesa in sampietrini e fiancheggiata da caschi di glicine (quelli che idealmente accompagnavano i suoi passi quando si indentrava verso lo slargo  dove c’era la casa di una ragazzetta di cui a mò di Dante con Beatrice, si era perdutamente innamorato all’età di 9 anni), c’ era, poi giù in fondo, la grande scalinata che costeggiava le antiche Mura e fiancheggiata dalla contorta e ripida salita detta “la Gajardona”, c’era la mole della Cupola di san Pietro che la mattina al risveglio riempiva lo scenario, appena venivano aperte le persiane, ed era anche gli amici con cui si giocava a “nascondarella” a “uno monta la luna”, ed infine quei personaggi dai soprannomi impossibili “zi ghe bake” il padre di un amico che aveva un taxi, ma se l’era giocato alle corse dei cani, Alvaro “er matto”  Desiderio “il lupo mannaro” , “Maria Zozzetta”che era una specie di barbona che a cadenze mensili attraversava la strada “la pisellona” di cui non aveva mai capito il perché di quell’epiteto, ma soprattutto  era il ricordo, luminosissimo   del nonno ed omonimo, che col cappello colla penna bianca, gli stivaloni con gli speroni su cui si impigliava la grande mantella fuori ordinanza, si stagliava nell’abitato, ricordo non solo suo, ma di tutta la strada, specie dopo quel giorno di giugno del ‘44, in cui sebbene convalescente per ferite riportate in guerra, si era rimesso l’uniforme di Colonnello e si era presentato al comandante della Wermatch, che voleva far brillare un carro armato bloccatosi proprio a ridosso della “Villa” dei Morelli e pregiudicava la ritirata delle truppe tedesche lungo l’Aurelia, e con fare fermo, da vecchio soldato, alla Caviglia non certo alla Badoglio, ovvero che non si era strappato i gradi dalle maniche e gettato l’uniforme alle ortiche, ma con fierezza e piglio , la penna bianca sul cappello, la mantella che si impigliava sugli speroni ...“lei è un ufficiale della Wermacht, non una SS…” lo aveva convinto  a  farlo rotolare lungo la discesa che dava alla ferrovia, sì da non arrecare alcun danno alla Villa e alle costruzioni prospicienti. 
Nicolò V, anzi con il nome con due “c” Niccolò V, lo aveva ritrovato quando si era iscritto in architettura e si era andato ad occupare dell’origine  della Roma papalina , anche detta la “seconda Roma” e quale la sua sorpresa e piacere nell’apprendere che il papa Niccolò V al secolo Tommaso Parentucelli (1397-1455) era stato proprio lui  l’iniziatore della complessa operazione urbanistica che dalla ristrutturazione della Basilica di san Pietro al Vaticano (quella che diverrà la “fabbrica di San Pietro”) aveva innescato tutti gli interventi nel corpo della città:  da quelli iniziali di sistemazione delle strade di accesso nel quartiere detto alla tedesca “Borgo” in quanto sede di truppe mercenarie appunto di origine germanica, per indentrarsi nel corpo della città antica ancora di impianto romano, grosso modo concentrata  nella grande ansa del Tevere, frontale al Colle Vaticano e all’antica fortezza dell’Imperatore Adriano, ovvero quello che diverrà Castel Sant’Angelo, percorrendola appunto tutta, con il recupero di antichi assi romani e innescando un vero e proprio sistema che fungerà da modello a tutta l’urbanistica dei secoli successivi e non soltanto a Roma.  Niccolo’ V  fu anche il prototipo del “papa-umanista”, sotto di lui difatti tale movimento  ebbe uno sviluppo inusitato con la convocazione presso il Papato di importanti artisti e studiosi come Lorenzo Valla, Poggio Bracciolini , Flavio Biondo, Andrea del Castagno, Piero Della Francesca, Rogier Van der Weyden, e in particolare  gli architetti Bernardo Rossellino, che  legherà il suo nome all’unica città interamente progettata con il nuovo strumento  della “prospettiva : “Pienza”  e Leon Battista Alberti, uno dei più colti progettisti dell’epoca, equiparato al Brunelleschi come impostazione teorica , che dedico’ al pontefice il suo trattato “De re aedificatoria” . Furono proprio questi due artistiti che studiarono la “sistemazione dei Borghi”
ovvero l’accesso alla Basilica di san Pietro che doveva
diventare il faro e il simbolo stesso di tutta  la Cristianità. Non è attestato con certezza, ma pare che l’Alberti avesse pensato a tre strade porticate  che dalla Basilica puntavano al Castel Sant’angelo, per ribaltarsi dalla quinta prospettica  del Ponte, oltre il fiume  in altre tre strade che a ventaglio si aprivano sul corpo dell’abitato urbano concentrato nell’ansa del Tevere, l’esecuzione effettiva sembra però che fu relizzata dal Rossellino che si limitò a sistemare l’unico asse che collegava Basilica con il Castello, il cosidetto “Borgo Vecchio”  facendone  a sistema non due, ma una sola strada (il Borgo Nuovo) e dando così avvio a quella che verra’ denominata “la spina di Borgo” ; in quanto alle tre strade che dovevano come rispecchiarsi oltre il fiume nell’ansa del Tevere, anche se non porticate, rimasero e andarono a costituire il cosidetto “piccolo tridente” che sarà quasi a prodromo del “Grande tridente”  quello che si verrà a costituire nel secolo successivo, con epicentro in piazza del Popolo. Insomma alquanto esaltante, l’andare a scoprire  che il nome della strada che aveva contrassegnato l’infanzia era quello di un personaggio che aveva per così dire avviato la formazione della Roma che tutti conosciamo e che come “forma urbis” è ancora, fatte salve alcune modifiche - la  costruzione della Cupola di Michelangelo a ideale suggello di simbolo della Cristianità, il Colonnato del Bernini  come apertura  avvolgente dei due bracci,  e   molto dopo, la distruzione della spina di Borgo, la via della Conciliazione - perfettamente riconoscibile. Una prassi di intervento urbano che costituisce un vero e proprio paradigma, iniziata con l’Alberti e il Rossellino  che ha una sorta di equazione algebrica “a+b+c = zero o infinito, di perfetta sequenzialità:  1° =  sistemazione dei Borghi  come primo anello di una catena significante  a livello di una topica di sviluppo urbano; 2° = razionalizzazione dell’antico abitato su base del piccolo tridente di Ponte Sant’Angelo  e la riqualificazione di antichi assi romani ( via del Governo Vecchio, via dei Banchi Vecchi, via  dei Coronari);  3° = enfatizzazione dell’unico asse nord sud  della Roma imperiale, quello che si prolungava nella “via sacra” ovvero l’originaria Via Lata;  4° = a sistema con questa un asse di penetrazione nel nucleo antico (la via Leonina, poi via Ripetta)  ed uno invece di espansione per le salubri zone, verso i cosidetti “Monti”(la via Paolina Trifaria, poi del Babbuino)  ed infine a perfetta concusione del paradigma e segno del “Tridente” un asse diretto che lo intersecava : la “via Trinitatis” ( via Tomacelli, via dei Condotti)  che collegava vecchia e nuova città, confluendo su quella che ancora oggi è denominata “Trinità de’ Monti”;  5° = la sistemizzazione di tutto questo processo  ad equazione, con il grande piano di un altro grande Papa che ha impresso alla città di Roma il suo segno più duraturo , ovvero grandi assi come vere e proprie direttrici di sviluppo, con il collegamento di quinte prospettiche di forte impatto e visività, attraverso lo strumento prospettico del punto di fuga. Stiamo parlando del grande “piano Sistino” modello di tutta l’urbanistica a venire  e Sisto V, il Papa che lo ideò con il concorso dei più grandi artisti, non più dell’Umanesimo, ma del Rinascimento fu indicato in una pasquinata (la statua parlante di Roma, la voce del popolo), una volta tanto con un epiteto non di critica o sberleffo, ma di ammirazione 
“ER PAPA TOSTO”….“fra tutti ch’hanno avuto
er posto  de vicari de dio, nun s’è mai visto  un papa rugantino, un papa tosto, un papa matto, eguale a  Papa Sisto”

 

venerdì 10 settembre 2021

CONFUSIONE DI SCHEMI

 

Io ho una ambizione somma, ma certo tutto questo periodo  innescatosi in questi ultimi  mesi si contrappone nettamente a tale aspirazione  : coniugare il meglio del pensiero, della conoscenza umana : Freud-Guenon-Evola-Keynes-Jaynes-MiltonErickson-Hamer-Lacan-MattèBlanco–Bohr-Einstein-Schrodinger–Feynman e qualche altro (pochi) fino a pervenire ad una diversa sensibilità  e sinergia di sforzi e conoscenze , e parto proprio da due interpretazioni del fattore salute/malattia, ovviamente in accezione radicalmente opposto a quella unilaterale , parziale, e sostanzialmente iatrogena della medicina attuale, ingagliatasi con il peggior consumismo che ha anche trovato il suo ultimo alleato nel comunismo. Credo di aver individuato un distinguo nella manifestazione dei...stavo a dire sintomi, ma non sono sintomi, non avvengono in presa diretta sul fattore conflittuale, ma diciamo così, in differita, quindi sono "simboli" e il loro significante non sta lì a disposizione per essere condensato, ma piuttosto scivola indietro nel tempo (qualche volta anche avanti) e si sovrappone con altri simboli, anche provenienti da altri foglietti embrionali che hanno ontogenicamente innescato la reattività (un pò come il funzionamento del conscio e dell'inconscio coi due meccanismi privilegiati del linguaggio : la metafora e la metonimia) : quindi potremmo convenire che il fattore di disagi principali ed altri secondari nonchè recidive, costellazioni e anche binari (chi ha la fortuna di conoscere un pò della teoria di Hamer, mi comprende) risiede in una sorta di scansione temporale di tali simboli che si!!!...sono ovviamente simboli (e non sintomi ) di conversione corporea. Ecco difatti che un bruciore alla bocca dello stomaco non è mai in sintonia immediata con una frustrazione sul lavoro, un  dolore ai reni con problemi di rischiare di perdere la casa e neppure  fitte di ernia ad una delusione, ma ecco , li procede  segue, così come una tossettina che magari ti innesca quella mancanza di respiro , ma che subito dopo, dopo aver compiuto il suo lavoro di disturbo che ti polarizza e incanala l'attenzione, se ti distrai scompare. Affascinante eh!? il funzionamento dei foglietti embrionali che poi altro non sono che la modalità filogenetica, ricapitolata dall'ontogenesi che perviene alla specie e all'individuo umano, di specializzazione di tutto il sistema cerebrale, appunto in parti più o meno evolute, preposte alla risoluzione dei vari conflitti, scanditi nel tempo, dell'essere al mondo, ed anche del "non essere". Avevo dapprima ipotizzato che l'ernia e le fitte a stomaco, fianchi, schiena all'altezza dei reni, fossero tutti da addurre ad un originale conflitto del boccone (sporco) quindi imputabile al foglietto embrionale dell'endoderma, messo in gioco dalla annosa diatriba con esponenti familiari in relazione ad appunto "sporchi" interessi economici, un boccone che per le implicazioni appunto di insudiciamento di tutta una serie di credenze, non si riusciva a mandare giù e si cercava di sputare. Ero stato propenso a ritenere di tutta una infiammazione dell'intero tratto del colon, che si muoveva appunto nei vari tratti del suo sviluppo, ma sempre in riferimento ad un unico foglietto embrionale, quello dell'endoderma, innescato sempre da quella DHS per dirla alla Hamer, ma la cosa mi appariva strana per via del suo frequente ripresentarsi, e a risoluzione oramai bella che assimilata anche volendoci mettere la crisi epilettoide No! c'era qualcos'altro e devo dire la rilettura dei testi originali di Hamer, che ad una prima lettura mi erano sembrati non solo ostici, ma anche presupponenti ed un titinin spocchiosi, si è rivelata illuminante: in questi difatti è analizzata al dettaglio la distinzione dei foglietti embrionali ed è chiaramente intesa la frequentissima possibilità che questi vadano mescolandosi in una stessa parte del corpo, che può avere parti di altri foglietti (un esempio classico proprio i rivestimenti parietali del colon e dello stomaco che hanno diverse composizioni a secondo del loro riferimento evolutivo - sempre quella benedetta ontogenesi ricapitolante la filogenesi - e quindi non un solo conflitto a monte dell'affezione, ma molteplici: quello del sentirsi più o meno adeguato ad un certo contesto, di avere paura di non farcela (foglietto embrionale del mesoderma recente) , quello della protezione e del "nido" che mette in gioco l'ectoderma e quindi anche i reni e, se la cosa è più pronunciata, anche il cuore e le coronarie. Succede un pò la stessa cosa sul fatto delle metastasi del cancro, che sono intese come una specie di diffondersi dello stesso male, ma in realtà altro non sono che nuove conflittualità, spesso e volentieri innescate da diagnosi infauste che innescano la paura; certamente non un fantomatico diffondersi dell'affezione, ma neppure un qualcosa di reiterato (la cosidetta recidiva) o un binario, ma differenti conflitti che innescano differenti foglietti embrionali, magari dello stesso organo corporeo. E’ proprio vero che la medicina di Hamer, come dicono gli Spagnoli è da denominarsi “Sagrada” = Sacra, in quanto qualcosa di veramente sacro in ambito di nosologia ma anche alla fin fine di cura, perché se è pur vero che “sapere di cosa si soffre non esclude il soffrire” come dicevano Epicuro ed Epitteto, e’ evidente come disporsi in termini  di conoscenza ed accettazione rispetto al proprio corpo e al diverso funzionamento degli organi, rappresenta una conquista dell’intelletto umano che vale la meta finale dell’alchimia, la pietra filosofale, l’illuminazione , la Grande Trasformazione. Superare determinate discrasie sopratutto di una poco reale  separazione mente-corpo, di metodologie fondate su protocolli nosologici quanto mai riduttivi, di inaffidabili procedimenti statistici e di diagnosi basate sul puro caso o su di una supposta “sfiga” con peculiarità più o meno genetiche, dovrebbe essere l’imperativo categorico di questo inizio terzo millennio e non certo quello di lasciarsi irretire dal solito terrorismo mediatico delle infami classi al potere di questo mondo mercantilistico e bottegaio, che si avvalgono dei più spregevoli mezzi di convinzione (paura e denaro) messi in atto con stucchevole periodicità in questa Età dei Mercanti  coi suoi servili esecutori ( mentalità sinistrorsa e pecoronismo delle masse). Si aggiunge un nuovo campione di riferimento e precisamente Thomas Kuhn  e al suo celeberrimo paradigma   che  afferma che la scienza attraversa ciclicamente alcune fasi indicative della sua operatività e quindi va assimilata ad una curva continua che in corrispondenza dei cambi di paradigma subisce delle discontinuità. Come è noto Kuhn suddivide tale paradigma in 5 fasi: La Fase 0 è il periodo chiamato pre-paradigmatico, caratterizzato dall'esistenza di molte scuole differenti in competizione tra di loro prive di un sistema di principi condivisi. In questa fase, lo sviluppo di una scienza assomiglia più a quello delle arti e presenta molta confusione. A un certo punto della storia della scienza in esame, viene sviluppata una teoria in grado di spiegare molti degli effetti studiati dalle scuole precedenti; nasce così il paradigma, l'insieme di teorie, leggi e strumenti che definiscono una tradizione di ricerca all'interno della quale le teorie sono accettate da tutti i cultori.Questa adesione condivisa dà inizio alla Fase 1, ovvero, l'accettazione del paradigma. Una volta definito il paradigma ha inizio la Fase 2, ovvero, quella che Kuhn chiama la scienza normale:  nel periodo di scienza normale gli scienziati sono visti come risolutori di problemi, lavorando per migliorare l'accordo tra il paradigma e la natura. Questa fase, infatti, è basata sull'insieme dei principi di fondo dettati dal paradigma, che non vengono messi in discussione, ma ai quali, anzi, è affidato il compito di indicare le coordinate dei lavori successivi. In tale fase vengono sviluppati gli strumenti di misura con cui si svolge l'attività sperimentale, vengono prodotti la maggior parte degli articoli scientifici, ed i suoi risultati costituiscono la maggior parte della crescita della conoscenza scientifica.Durante la fase di scienza normale si otterranno sia successi, che insuccessi, che per Kuhn, prendono il nome di anomalie, ovvero eventi che vanno contro il paradigma. Lo scienziato normale, da buon risolutore di problemi quale è, tenta di risolvere tali anomalie. Si passa così alla Fase 3, nella quale il ricercatore si scontra con le anomalie. Quando il fallimento è particolarmente ostinato o evidente, può avvenire che l'anomalia metta in dubbio tecniche e credenze consolidate, aprendo così la Fase 4, ovvero la crisi del paradigma. Come conseguenza della crisi, in tale periodo si creeranno paradigmi diversi. Tali nuovi paradigmi non nasceranno quindi dai risultati raggiunti dalla teoria precedente ma, piuttosto, dall'abbandono degli schemi precostituiti del paradigma dominante.Si entra così nella Fase 5, la rivoluzione (scientifica) che viene chiamata “scienza straordinaria” e dove si aprirà  una discussione all'interno della comunità scientifica su quali dei nuovi paradigmi accettare.Però non sarà necessariamente il paradigma più "vero" o il più efficiente ad imporsi, ma quello in grado di catturare l'interesse di un numero sufficiente di scienziati, e di guadagnarsi la fiducia della comunità scientifica. I paradigmi che partecipano a tale scontro, secondo Kuhn, non condividono nulla, neanche le basi e quindi non sono paragonabili (sono "incommensurabili"). La scelta del paradigma avviene, come detto, per basi socio-psicologiche oppure biologiche (giovani scienziati sostituiscono quelli anziani). La battaglia tra paradigmi risolverà la crisi, sarà nominato il nuovo paradigma e la scienza sarà riportata a una Fase 1. Col libro La struttura delle rivoluzioni scientifiche,  Kuhn definisce cambiamento di paradigma  epistemologico  una rivoluzione scientificaquando gli scienziati incontrano anomalie che non possono essere spiegate dai paradigmi universalmente accettati, all'interno dei quali s'era sviluppato il progresso scientifico. Il paradigma, nella visione di Kuhn, non è semplicemente la teoria corrente, ma l'intera visione del mondo nel quale la teoria esiste e tutte le implicazioni che ne derivino. Ogni paradigma ha le sue anomalie, sostiene Kuhn, che sono spazzate via come livelli d'errore accettabili, o semplicemente ignorate e neglette (l'argomento principale usato da Kuhn per refutare un'altra baggianata  dello pseudo filosofo Popper : il modello di falsicabilità come motore decisivo del cambiamento scientifico). Secondo Kuhn, quando un numero sufficiente di anomalie si sono accumulate contro un paradigma corrente, la disciplina scientifica si trova in uno stato di crisi. Durante queste crisi nuove idee, a volte scartate in precedenza, sono messe alla prova. Infine si forma un nuovo paradigma, che conquista un suo seguito, e una battaglia intellettuale ha luogo tra i seguaci del nuovo paradigma e quelli del vecchio. Ancora a proposito della fisica del primo '900, la transizione tra la visione di James Clerk Maxwell dell'elettromagnetismo e le teorie relativistiche di Albert Einstein non fu istantanea e serena, ma comportò una lunga serie di attacchi da entrambi i lati. Gli attacchi erano basati su dati empirici e argomenti retorici o filosofici, e la teoria einsteiniana vinse solo nel lungo termine.Il peso delle prove e l'importanza dei nuovi dati dovette infatti passare dal setaccio della mente umana: alcuni scienziati trovarono molto convincente la semplicità delle equazioni di Einstein, mentre altri le ritennero più complicate della nozione di etere di Maxwell. A volte il giudice decisivo è il tempo e il suo conteggio dei corpi, dice Kuhn citando Max Planck: "Una nuova verità scientifica non trionfa quando convince e illumina i suoi avversari, ma piuttosto quando essi muoiono e arriva una nuova generazione, familiare con essa." Quando una disciplina completa il suo mutamento di paradigma, si definisce l'evento, nella terminologia di Kuhn, rivoluzione scientifica o cambiamento di paradigma. Così ecco che il Paradigma di Kuhn si combina con la Teoria delle Età del mondo (oro, argento, bronzo e ferro)  della Tradizione riportata da illustri pensatori come Evola o Guenon e che abbiamo cercato di scandagliare al di la' di presupposti scientisti di antiscientificità. Io personalmente non amo gli schemi, tutti gli schemi,  in cui storia del mondo o anche del singolo verrebbero catalogati: Ho sempre detestato Platone e il suo Concetto come origine archetipa di ogni dualismo di valori, o anche la rigidità sillogistica di Aristotele, preferenziando la relatività dei Sofisti : Protagora, Gorgia, Anassagora,  per,  una volta pervenuti in età moderna, fare piazza pulita del famoso Cogito Cartesiano (le malefatte del Cogito ha avanzato qualcuno) e tutti i movimenti post rivoluzione industriale che hanno cercato di giustificare il nuovo referente di essenza del mondo (la macchina), in primis la risibile dialettica Hegeliana e il suo strafalcione epistemologico "ciò che è reale è razionale, ciò che è razionale è reale", quindi le cosidette Teorie economiche  alla Smith, alla Ricardo, Malthus, Say, che suonano come tentativo di dare rispettabilità ad una delle tendenze  più spregevoli della specie umana (il mercantilismo e l'accumulazione che gli antichi scongiuravano con il Potlac) : al macero anche le teorie di Marx scopiazzate su una presunta validità della dialettica hegeliana e mettendosi a bastian contrario rispetto ai testi cosidetti classici del Liberismo. Meglio molto meglio la Negazione di uno Schopenauer o di un Nietzsche per pervenire quindi ad un lato decisamente "altro" della coscienza con Freud, per quindi riagganciarci e tutti i campioni citati all'inizio del presente articolo, per scongiurare l'inverazione di uno schema ben più antico, quello dell'Eta' del mondo , che malauguratamente ci pone a noi uomini che sono pervenuti al terzo millennio,  in posizione quanto mai trubola e pericolosa : finire servi (età del ferro, per gli Indù Kali Yuga)  di questi bottegai di mercanti e dei loro burattini/kapò,  i volenterosi carnefici di libertà della sinistra )

mercoledì 8 settembre 2021

COPIONI DI CANZONI

Sembrerebbe proprio che la truffa, la manipolazione di fatti e dati non sia una peculiarità solo delle classi al potere e della moderna informazione di massa. Non è da oggi che mi occupo del falso di "Bella Ciao" come canzone simbolo della Resistenza  messo in atto nel lontano 1964 al Festival dei Due mondi di Spoleto, dal Nuovo Canzoniere Italiano in correlazione ad un altro falso quello della canzone di protesta della guerra 1915-18 previa la musica e parole decisamente "costruite a tavolino " della crudissima "Gorizia tu sei maledetta" C'è da dire che la vicenda di Bella Ciao sia stata però alquanto più "di successo"  per cui le versioni sulla sua origine, siano state più oggetto di diverse attribuzioni. Una  versione  decisamente fantasiosa è quella dell’adattamento elaborato nel 1888 dal famoso agente segreto del Risorgimento Costantino Nigra come ballata delle mondariso (“Alla mattina appena alzata / o bella ciao o bella ciao ciao ciao / alla mattina appena alzata / laggiù in risaia debbo andar”). Ammessa la genuinità dell’elaborazione di fine Ottocento dovremmo scoprire dove Costantino Nigra aveva ascoltato la musica che ispirò la sua ballata per le mondariso. Le ipotesi sono diverse, ma nessuna convince in pieno: Nigra era un giramondo, si sa fu assieme alla Contessa di Castiglione inviato da Napoleone III per convincerlo a entrare in guerra in favore del Piemonte, fu quindi  ambasciatore a Parigi, San Pietroburgo, Londra e Vienna, un uomo decisamente "per tutte le stagioni" per cui niente di strano che oramai vecchio si sia messo a rielaborare non solo storie ma anche musichette. Abbiamo detto della, non solo consacrazione, ma addirittura prima  rappresentazione della canzone nel 1964 grazie allo spettacolo Bella ciao con il Nuovo canzoniere italiano sul palco del Festival di Spoleto sponsorizzato dall’editore e discografico Nanni Ricordi, ma come detto di versioni ce ne sono altre. Un’altra indagine di musicologi aveva in seguito individuato una fonte originaria precedente, non più emiliana bensì abruzzese, un coro germogliato sul massiccio montuoso della Majella. Ora in un saggio pubblicato da Castelvecchi “Bella ciao, la storia definitiva della canzone partigiana che dalle Marche ha conquistato il mondo”, il ricercatore maceratese Ruggero Giacomini mostrò una lettera datata 1946 che cita Bella ciao come canto dei partigiani della Brigata Garibaldi accampati sul monte San Vicino. Chi si aspettava un sussulto d’orgoglio marchigiano è rimasto sorpreso dalla fulminea replica di Annalisa Cegna, direttrice dell’Istituto storico della Resistenza di Macerata, che ancora prima dell’uscita del libro ha commentato dalle colonne de Il Resto del Carlino: “Un solo documento non è sufficiente per avere garanzie storiche. Come studiosa andrei cauta ad affermare che la canzone Bella ciao sia nata nel Maceratese” confutando l’anticipazione del concittadino ricercatore. Majella e Reggio Emilia restano pertanto in gioco per l’origine delle parole “oh partigiano portami via”. La genesi della struttura musicale del brano è ancora più confusa: forse ispirata alla filastrocca trentina per bimbi La me nòna l’è vecchierella, forse alla nenia piemontese La daré d’côla môntagna ereditata da un canto francese del Cinquecento. Un altro tassello arriva dalla ricerca divulgata negli anni Duemila dall’ingegnere fiorentino Fausto Giovannardi: la musica di Bella ciao è molto simile a quella di Oi Oi di Koilen, una melodia yiddish registrata dal fisarmonicista di origini ucraine Mishka Ziganoff nel 1919 a New York.

La forma ritmica di 
Bella ciao si sposa in effetti alla perfezione con il klezmer, il genere musicale degli ebrei dell’Est Europa: persino in Hava Nagila (in italiano Rallegriamoci) la più nota tra le canzoni popolari ebraiche, si colgono analogie armoniche con Bella ciao. . La Bella ciao arrivata a noi, come la maggioranza degli inni, tanto vale andrebbe forse risolutivamente attribuita a Omero, che ha ideato i primi
poemi, scritti in una lingua che possiamo comprendere senza  lasciarci fuorviare da interpretazioni  alla "test di Roschach"  messo in atto per opere precedenti di cui le forzature, come giustamente osserva Julian Jaynes nel suo libro "il crollo della mente bicamerale e l'origine della coscienza" non consentono di fare un distinguo tra realtà e fantasia. Tanto vale, insomma, riferirci ad un inequivocabile archè, così per uno scritto, quanto per una musica, che tra l'altro non può essere oggetto di verifica,  ovvero ad una sorta di  tradizione popolare, con i contributi di tanti che hanno tramandato e aggiornato melodia, armonia, ritmo e testo, quindi non solo emiliani, abruzzesi e marchigiani e neppure un Costantino Nigra e magari una qualche associazione tra Elena e la Contessa di Castiglione, che però al noto funzionario era sfuggita. Comunque non e' solo per Bella Ciao e con meno enfasi per Gorizia tu sei maledetta, che la diatriba si applica alle canzoni, prendiamo il celeberrimo 
Bandiera rossa: anche per il canto dei lavoratori si narra di complesse trasformazioni: ideata nei primi dell’Ottocento come aria popolare lombarda Ven chi Nineta sotto l’ombrelin, divenne cinquant’anni dopo canto repubblicano (“Avanti popolo con la riscossa / bandiera rossa, bandiera rossa/ bandiera rossa la trionferà / viva la repubblica e la libertà”). Risale al 1908 la versione socialista di Carlo Tuzzi che dopo la rivoluzione bolscevica, con nuove variazioni al testo, diventò il più ricorrente inno ufficiale del Partito comunista italiano (“Avanti o popolo, alla riscossa / bandiera rossa, bandiera rossa / bandiera rossa la trionferà / Evviva Lenin, la pace e la libertà”). La stessa confusione per le origini degli inni della sinistra, la ritroviamo in quelli della destra. Giovinezza l’inno caro a Benito Mussolini non era nato per il Regime. Bensì era stato composto da Giuseppe De Blanc nel 1909 per una cena di laureandi del Politecnico di Torino, con le parole di Nino Oxilia, l’autore che con Camasio avrebbe poi scritto la commedia Addio giovinezza, e cominciava con le parole “Son finiti i giorni lieti”.
Poi gli Alpini nella guerra 1915-18 avevano portato il brano in trincea, galeotto l'autore originario Giuseppe De Blanc richiamato alle armi come ufficiale del 5° alpini, dove un suo comandante il Capitano Corrado Venini, appassionato di composizioni musicali ne aveva fatto l'inno della compagnia alpini sciatori del btg. Vestone Fu soltanto qualche anno dopo che 
Giovinezza, il cui refrain era rimasto sempre uguale (“Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza”), divenne con le nuove parole iniziali di Salvator Gotta, “Salve o popolo di eroi”, l’inno ufficiale del fascismo. La musica di Giovinezza, caduto da tempo il regime, fu copiata sfacciatamente nell’America del Sud e registrata su disco come pezzo sinfonico col titolo Casamento Maroto – Marcia brasileira. L’autore De Blanc dovette intraprendere una causa internazionale di plagio per riottenerne i diritti. Di procedimenti giudiziari, per contraffazione e illeciti vari, fu bersagliata soprattutto Faccetta nera, la canzone più famosa del Ventennio, interpretata da Carlo Buti con il testo del poeta Renato Micheli.

Le grane maggiori toccarono all’autore della musica, il maestro palermitano Mario Ruccione compositore di altre famose marce di regime come 
La sagra di Giarabub e Camerata Richard, sempre affidate alla stabile intonazione di Buti, ma anche di brani delicati e longevi come Vecchia Roma e Serenata celeste. A denunciare Ruccione per plagio furono Vincenzo Raimondi, un musicista dilettante e l’attore Gustavo Cacini “un comico poveraccio d’avanspettacolo con arie da Giggi er bullo” lo ricordò nella sua autobiografia l’attore Paolo Stoppa. I querelanti chiesero al pretore di Roma il sequestro conservativo della canzone dimostrando che la frase musicale “Faccetta nera – bella abissina – aspetta e spera che già l’ora s’avvicina” risultava identica a quella di un loro lavoro precedente, intitolato La vita è comica, che recitava “La vita è comica – presa sul serio – perciò prendiamola davver poco sul serio! – La vita è comica – ognun lo sa – perciò prendiamola davver come ci va”. Il magistrato accolse il ricorso e i nomi di Cacini e Raimondi vennero aggiunti nei crediti del brano accanto a quello di Renato Micheli. Scomparve in molti bollettini il nome di Ruccione seppure nella memoria di tutti è rimasto l’unico vero autore dell’inno dell’Italia coloniale. Altri ancora in seguito avanzarono pretese riguardo alla paternità del brano, come Giulio Razzi, dirigente dei programmi della Rai del dopoguerra, o tentarono di contrastarne la proprietà editoriale. La confusione all’origine degli inni sociali non dispensa gli inni religiosi. Il motivo natalizio che tutti almeno una volta abbiamo intonato, Tu scendi dalle stelle, è un plagio. Prima metà del Settecento: i compositori contendenti erano entrambi prelati. Uno vescovo di Tropea, monsignor Felice de Paù, il quale dette origine a La Pastorella terlizzese come canto religioso della novena di Natale. L’altro, il monsignore napoletano Alfonso Maria de’ Liguori, che si attribuì nello stesso periodo un’identica melodia con un testo in partenopeo e il titolo Quanno nascette Ninno, poi pubblicata in italiano come Tu scendi dalle stelle. Gli studiosi impegnati nel confronto tra le due opere, sembrano concordare per la paternità pugliese. Ma si avverte un problema di fondo: i periti a loro volta appartengono a ordini religiosi. Monsignor de’ Liguori già vescovo della diocesi di Sant’Agata de’ Goti, nel 1839 è stato canonizzato e in seguito proclamato dottore della Chiesa, nonché patrono dei confessori e dei giureconsulti. È dunque comprensibile il disagio per un ecclesiastico di affibbiare la patente di plagiario a un santo, tanto più se patrono degli avvocati.

 

RIVOLTA E TAVOLINO (APPROFONDIMENTI)

 

Approfondiamo l'articolo precedente sulla canzone di rivolta a tavolino  del Gruppo del Nuovo Canzoniere  “O Gorizia tu sei maledetta” ascesa a grande notorietà più per le accese polemiche che essa aveva suscitato  per la sua presentazione e provocatoria esecuzione al Festival dei Due mondi di Spoleto, che per la canzone in sé. Era stata  una esposizione fatta  da membri del “Nuovo canzoniere Italiano” ovvero una associazione musicale che si rifaceva ai “Cantacronache” un gruppo che,  dalla metà degli anni cinquanta si contrapponeva alle sciroppose canzoni del Festival di Sanremo e produzione musicale dell’epoca,  e quindi si era dato  parecchio da fare per una  sistemizzazione e riproposizione di tutto il patrimonio della canzone popolare italiana.
I Cantacronache era un Gruppo che era  stato fondato a Torino nel 1957, e fin dall’inizio si era avvalso  della collaborazione di personaggi di primissimo piano della cultura italiana, del calibro di Umberto Eco, Franco Fortini, Gianni Rodari, Italo Calvino, di cui addirittura quest’ultimo, aveva scritto il testo, su musica di uno dei componenti Sergio Liberovici, di un paio di loro canzoni,  “Dove vola l’avvoltoio”  “Oltre il ponte” , di fortissimo impatto politico.  Per la
cronaca il Gruppo si era sciolto nel ‘62 ma molti dei suoi componenti erano confluiti nell’appunto  “Nuovo canzoniere Italiano” e  come fatto cenno,  furono proprio esponenti di tale “Canzoniere”  Fausto Amodei, Michele Straniero e la cantante Sandra Mantovani, tutti confluiti dal Gruppo dei Cantacronache, che a Spoleto nel giugno del ‘64  attaccarono  i versi e la nenia della canzone  “ O Gorizia tu sei maledetta”, suscitando un vero putiferio, per il senso estremamente crudo del testo... “o vigliacchi che voi ve ne state colle mogli nei letti di lana, spregiatori di noi carne umana…”  Analizziamo però un po’ più approfonditamente  tale testo : il frasario non è da “umil fante“della prima guerra mondiale, e meno che mai di reparti speciali, tipo arditi: non c’è alcun senso di ironica provocazione, intento canzonatorio o di rassegnata melanconia , tipo i Bombacè  o le canzoni degli alpini, laddove invece  la malinconia si fa rabbia e pura invettiva, come indica il titolo stesso della canzone e ulteriori brani del testo sempre violentissimo : “traditori signori ufficiali che la guerra l’avete voluta, scannatori di noi carne venduta, rovina della gioventù, questa guerra ci insegna a punir” (in una successiva interpretazione il  “scannatori” diventa “spregiatori” e il carne venduta, diviene “carne umana”, fu tolta la frase “rovina della gioventù, ma rimase il “questa  guerra “sostituendo il “punir” con il  “pugnar” ): fu proprio questa la strofa, che in verità non era stata prevista, ma a causa di un abbassamento di voce della Mantovani , Michele Straniero aveva preso  la palla al balzo per inserirla nell’esibizione, con ulteriore intento provocatorio, che  scatenò quel putiferio, tra grida, insulti, improperi, lancio di oggetti, portando alla interruzione  e provocando anche  una denuncia per “vilipendio delle Forze Armate” ma che  ebbe anche larga diffusione nella stampa, decretandone  un successo inusitato. Successo che  si palesò subito  già da quella stessa estate divenendo un repertorio quasi obbligato in manifestazioni di sinistra, e cantata non solo non solo dal gruppo del Nuovo Canzoniere Italiano erede dei  Cantacronache, ma  da tutti i cantanti “impegnati” : oltre la Mantovani, Giovanna Marini , Caterina Bueno, Maria Carta , Francesco De Gregori, fino a Soledad Nicolazzi; non ci giurerei, ma mi pare proprio che fu anche intonata  ai funerali di Togliatti in quel settembre del 1964. Canzone terribile ma anche stupenda, davvero la quintessenza dell’atmosfera della prima guerra mondiale, però, c’è da dubitare fortemente che la canzone sia originaria di tale periodo:  troppo  “invettiva/manifesto”  che dà tutta l’idea della composizione a tavolino, molto molto dopo gli eventi reali.  Si è detto che un anonimo militare l’aveva sentita intonare da soldati subito dopo la presa di Gorizia nell’agosto del 1916, ma francamente ci credo poco : la censura militare, i famigerati Tribunali  Speciali erano  fin troppo attivi  durante quella guerra: se davano luogo a denunce e punizioni  solo se qualcuno intonava il bombacè  della cartolina di Trieste , o portavano a severissime inchieste  per un cartello, dove  degli anonimi soldati avevano denominato la propria Brigata “Brigata Coglioni” facendo cenno ad una usanza molto diffusa, data la poca fantasia dei Superior Comandi,  che faceva si che le Brigate che si erano maggiormente distinte in fatti d’armi, venissero sempre preferenziate in ulteriori azioni estremamente pericolose,  erano cioè “sfottute” dando motivo a quell’epiteto di “Brigate coglioni”; difficile quindi per non dire impossibile che una canzone corale di tale impatto potesse essere cantata da reparti combattenti di prima linea . La verità è che mai e poi mai, prima di quel  Festival dei due Mondi del 1964, neppure  alle manifestazioni del PCI, ai Festival dell’Unità, quando magari si cantava Bandiera rossa, ovviamente l’Internazionale, si era accennato alla impietosa  “O Gorizia tu sei maledetta!”  quindi  proprio  non me la sento di metterla nel novero delle canzoni di protesta originarie di tale guerra, diciamo che  essa rientra in tale elenco, ma con un balzo di tempo che la fa collocare nel novero di un patrimonio a posteriori di musica e protesta,  una canzone non “della” guerra ma “sulla” guerra;  ecco! diciamo accanto ad un'altra canzone destinata ad avere ancora maggiore impatto “Bella ciao”, altro cavallo di battaglia del Nuovo Canzoniere Italiano  che in quello stesso periodo  e sempre nello stesso Festival dei Due Mondi    si diceva che era stata rispolverata da un vecchio canto della Resistenza, la cui diffusione però nel periodo ovvero 1943-45,  non solo non è per nulla accreditata, ma anche contestata vibratamente da esponenti della guerra partigiana non ultimo il giornalista Gorgio Bocca  che asseriva che ne’ motivo, ne parole, aveva mai sentito prima di quella metà degli anni sessanta .  Fu anche detto che una registrazione  di una sua esecuzione cantata , risalisse al Festival della gioventu’ comunista a Praga nel 1947 cui partecipò un giovane Italo Calvino, ma anche qui : nessuna prova, mentre la canzone più famosa della Resistenza rimaneva per tutti  “fischia il vento, urla la bufera” sul refrain della canzone russa Katjusha “ di cui il partigiano ligure Michele Cascione, grande amico del già più volte citato Italo Calvino, aveva composto i versi; questa si! accreditata con certezza assoluta al periodo di riferimento.  Il punto è che il Gruppo dei Cantacronache non era  stato solo attivo nel recuperare testi e melodie della tradizione libertaria, ma  era stato  anche estremamente prolifico in merito all’ideazione di nuove composizione: i già citati canti su testi di Calvino,  quindi “la Zolfara” una canzone ispirata all’uccisione di 8 minatori in località Gessolungo nel lontano 1881 , testo  e musica di Straniero e Amodei  del 1958, portata al grande successo da Ornella Vanoni nei primi anni sessanta, ma soprattutto a quel famosissimo “Per i morti di Reggio Emilia” scritto o e inciso da Fausto Amodei all’indomani della strage di Reggio Emilia dell’estate 1960 sotto il Governo Tambroni,  

che è ancora oggi una delle canzoni più celebrate e cantate del repertorio della sinistra:  da cui ecco quindi la mia perplessità e relativi dubbi : ho il fortissimo sospetto che autori del calibro di un Amodei
, di uno Straniero, di un Liberovici di una Mantovani, che avevano scritto canzoni della potenza  di quelle citate, anche come pura musica, straordinarie, che avevano fatto parte sia dei Cantacronache che del Nuovo Canzoniere Italiano, e quindi esperti raffinati musicisti, abbiano voluto fare una piccola forzatura storica: rinunciare alla paternità del testo e musica e trasferirne l’origine ai fatti di origine, ovvero a  quella mattina del 5 di agosto in cui “si muovevan le truppe italiane, per Gorizia e le terre lontane, … ed anche la ancora più famosa “ mattina in cui mi sono alzato, e ho trovato l’invasor…”  Le canzoni successive a quel 1964 si fanno indubbiamente più internazionali, appuntandosi su fatti che avvengono un po’ dappertutto:  il maggio francese, la contestazione, gli slogan cadenzati i “c’est n’est que un debut continuons le combat” l’invasione sovietica di Praga, da noi in Italia il crudo “Contessa” di Pietrangeli  “compagni dai campi e dalle officine, prendete la falce e portate il martello, scendete giù in piazza, picchiate con quello” che è del 1966 ma che  fu una sorta di inno proprio nelle manifestazioni nostrane del ‘68, da Valle Giulia, di cui lo stesso Pietrangeli ne scrisse una canzone in risposta alle famose critiche di Pasolini, alle occupazioni dell’Università, e dei licei, con i libri di Marcuse sottobraccio, in bocca sempre nuovi slogan cadenzati di ispirazione francese  ed anche ulteriori fatti di cronaca  come “primo d’agosto Mestre sessantotto”una canzone di Gualtiero Bertelli, che era come Pietrangeli un ulteriore militante  del “Nuovo Canzoniere italiano” ed infine parecchie canzoni meno militanti, a volte addirittura successi commerciali , tipo quelli di Fabrizio De Andrè, Francesco Guccini, il francese Georges Brassens con la grossa tradizione di canzoni di cantanti beat/folk americani che avevano il loro nume tutelare in Bob Dylan “Blowin in the wind” The times they are a changing, Masters of war”, e che  si rifacevano alla tradizione “lobo/beat”  di Woody Ghutrie, Peter Seeger e successivamente con la splendida voce di  Joan Beaz che  aveva anche cantato la nostra “c’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones”  incisa  anche da Gianni Morandi.  Un notevole impatto sulla canzone libertaria di protesta, ha anche la canzone sudamericana, da quella  con  tema la rivoluzione di Fidel Castro a Cuba, ove campeggia il Comandante Che Guevara,  la  celebre “Hasta siempre” e , specie negli anni settanta  dopo i fatti del Cile del settembre 1973, gli Inti Illimani e il loro “el pueblo unido jamàs sarà vencido”Il periodo successivo, gli anni ‘ottanta, ‘novanta, lo Yuppismo, la fine del Comunismo cosidetto Reale, il capitalismo trionfante con il  consumismo ormai imperante , la pubblicità, le privatizzazioni, Reagan negli Usa , poi i due Busch, fino all’attuale Trump, la Thatcher in Inghilterra, Berlusconi da noi in Italia e i suoi tristarelli eredi/epigoni, l’Europa unita delle Banche e dei particolarismi , hanno come abbassato il volume  di tutta la tradizione della canzone libertaria e di protesta, forse impotente a cantare di un mondo che non ha neppure il coraggio di manifestare tutta la sua negatività, ma si nasconde, si maschera, e bussa alla tua porta assumendo  l’aspetto, come dice una canzone di Bob Dylan, del vagabondo che ha indosso  il vestito che tu portavi l’altra volta .


 

LA CANZONE DI RIVOLTA A TAVOLINO

La più famosa canzone di rivolta è senza dubbio l’Internazionale, che tradizionalmente  viene associata alla Unione Sovietica, di cui fu in effetti l’inno Nazionale dal 1917 al 1944  prima di essere sostituita dalla musica del Gen. Alexandrov, che è tutt’ora l’inno russo, ma in verità, anche se è in genere la canzone che i movimenti socialisti e comunisti di tutto il mondo, con quella adesione ideale e anche qualcosa in più, al Paese del cosidetto “Socialismo reale”, la sua origine è esclusivamente francese :  lo scrittore, militante socialista Eugene Pottier ne scrisse le parole, con le quali intendeva celebrare la Comune di Parigi del 1871, cui lui stesso era stato
 un entusiasta sostenitore e partecipante, ma le  parole venivano però cantate sull’aria della Marsigliese e questo ancora 15 anni dopo quando lo stesso Pottier , che era un instancabile autore di versi rivoluzionari, poco prima di morire aveva  scritto parole di  una nuova canzone  sempre per celebrare la Comune, in particolare la cosidetta “semaine sanglante”di cui lui stesso era uno dei “survivants” sopravvissuti  : 
“Elle n’est pas morte” avendovi trovato la musica di un’aria di un compositore Parizot “”t’en fais pas Niculas “ e componendone quindi un refrain trascinante con il ritornello che faceva “Tout ça n'empêche pas, Nicolas, que la Commune n'est pas morte!”

Probabilmente fu il maggior impatto di tale canzone con parole e musica  che non si rifaceva al troppo celebre e anche  al non più cosi’ rivoluzionario La Marsigliese, che indusse il compositore  Pierre De Geyter, due anni dopo, nel 1888, quando Pottier era morto da pochi mesi (nel novembre del 1887) a comporre per le parole  una musica originale che è quella che tutti conosciamo e che a ragione può definirsi come il più genuino e accreditato  inno del socialismo, al di
la’ di una singola nazione, ma come indicato dal suo stesso nome, di tutto il mondo. 
In italia l’ Internazionale divenne famosissima  ma la sua traduzione del testo fu parecchio dissimile all’originale : essa era stata oggetto di un concorso indetto dal giornale socialista l’Asino che aveva visto vincitore un certo Bergeret che probabilmente era il giornalista Ettore Marroni che usava spesso uno pseudonimo simile e anche se spesso fu oggetto di revisione, quel testo del 1901  è rimasto il più diffuso e a tutt’oggi cantato.
Non è che in quell’inizio del XX secolo, canzoni del genere  erano sulla bocca di tutti: vigevano le feroci repressioni degli Stati Nazionali, la maggior parte monarchici  e probabilmente
quelle più provocatorie e famose erano di stampo anarchico, quale ad esempio  la stupenda “Addio Lugano Bella” considerata appunto  l’inno degli anarchici, che era stato scritto da Pietro Gori, un avvocato anarchico militante, amico di Sante Caserio, l’uccisore del Presidente Francese Sidi Carnot, di cui lo stesso Gori aveva scritto appunto “la ballata di Sante Caserio” e che la stampa accusava addirittura di esserne l’ispiratore. Certo è che Gori  si era rifugiato a Lugano per sfuggire  alla polizia italiana per poi essere imprigionato e infine espulso anche da quel Paese, da cui le famose parole della canzone, il “cacciati senza colpa, gli anarchici van via. Gori scrisse parecchie altre canzoni anarchiche e comunque di protesta ma nessuna raggiunse la notorietà e anche il livello musicale di Addio Lugano bella, d’altronde anche le altre canzoni con tali ispirazioni non erano granchè conosciute nell’Italia di inizio secolo, essendo come sopraccennato, oggetto di forte censura  e repressione: ci potevano essere delle sorte di ballate, tipo quella di Caserio o che inneggiavano a Bresci l’uccisore di Umberto I, che imprecavano contro  il Generale Bava Beccaris, quello delle famose  cannonate di Milano del ‘98, ma erano cantate quasi esclusivamente da militanti politici, anachici o socialisti di tendenza esteremistica, il grosso, diciamo così, della protesta era semmai  incanalato verso  canzoni della tradizione popolare delle varie regioni del Paese, canti di lavoro, di sacrificio, di emigrazione del tipo “Maremma amara... dove l’uccello che ci va perde la penna”,   “sciur padrun da li beli braghi bianchi” che era un canto delle mondine del Vercellese, “mamma mia dammi cento lire”… che in america voglio andar” insomma canzoni non di partito, non di militanti politici, ma che solo con una certa forzatura potevano essere ascritte a ribellione o tanto meno rivoluzione Lo stesso doveva accadere durante la guerra di Libia, tra  tripudio di tricolori, sciantose che cantavano vestite da marinaretto “Tripoli bel suol d’amore” e i fasti al tramonto dei riflessi della Belle Epoque con le  sciantose del Cafè Chantant  gli  ufficiali in alta uniforme, le dame in landò:  tante canzoni, ma tutte molto lontane dal mondo dei poveri, dei diseredati e anche della protesta e della ribellione, che solo dopo la buriana della guerra troveranno una certa malinconica espressione “partono è vastimenti pe’ terre assai luntane” tra l’altro per la penna e la sensibilità di E.A.Mario l’autore de La canzone del Piave   ed altre canzoni di impronta patriottica.   Le canzoni di rivolta del periodo della prima guerra mondiale  furono incanalate su un generico antimilitarismo non politico, di cui abbiamo già trattato a proposito dei canti della tradizione popolare sopratutto di tipo montanaro e dei cosidetti "bomba c'è" sorta di stornelli cadenzati, fortemente ironici di una critica graffiante e provocatoria, ma come detto, non politica, ma incentrati sui disagi e le sperequazioni della guerra,"il nostro battaglione è un pochettino scarso, abbiam lasciato il resto sul San Michel del Carso....bom bom son tre colpi di cannon oppure il più irriverente "da Cividale a Udine ci stanno gli imboscati, portan gambali lucidi e capelli impomatati ...din don dan e al fronte non ci van" tant'è che sullo stesso refrain furono imbastiti prima le strofette degli Arditi, le celeberrime Fiamme Nere "se non ci conoscete guardateci dall'alto noi siam le Fiamme Nere dei battaglion d'assalto ...bombe e man e carezze col pugnal"  e poi dalle prime formazioni di camicie nere dei fasci di combattimento "se non ci conoscete, guardateci sul petto, noi siamo gli squadristi dal santo gagliardetto" che conservavano lo stesso ritornello. La canzone politica militante tornò nel periodo della Resistenza, ma checchè ne dica l'attuale sinistra non fu certo Bella Ciao l'inno di tale periodo anche per il fatto che Bella Ciao fu
una composizione a tavolino fatta da un gruppo di raffinati cultori della tradizione popolare Il Nuovo Canzoniere Italiano che la presento' per la prima volta  al festival di Spoleto dei Due Mondi del 1964, spacciandola per un canto originario della Resistenza. La vera unica originaria canzone  della Resistenza fu Fischia il Vento sul refrain della musica russa di Katyuscia con le parole composte da un
medico partigiano amico intimo di Italo Calvino : Felice Cascione.
Nel dopoguerra  si costituì il Gruppo dei  “Cantacronache”,  che  nella costante ricerca delle tradizione autoctone della musica popolare, compose con grande sensibilità e innegabile talento le migliori canzoni che sono andate ad ingrossare il patrimonio popolare
della musica di protesta, di cui forse il testo e musica più celebri furono quelli de "per i morti di Reggio Emilia" del 1960 di Fausto Amodei che giustappunto era stato uno dei fondatori del Gruppo. Gruppo importantissimo I Cantacronache  destinato a confluire nel citato Gruppo del Nuovo Canzoniere Italiano (1962), che però al contrario del suo  antecedente  proprio in quell’occasione del  Festival Dei Due Mondi di Spoleto  del 1964,  prese anche a   manipolare la tradizione  contando su di una maggiore esperienza e sensibilità  musicale e incanalare cosi’ anche se non in maniera veritiera  il patrimonio della tradizione di rivolta.  Lo fece per Bella Ciao  e l’epopea della Resistenza, come abbiamo accennato, ma lo fece con addirittura più scalpore e provocazione per la atmosfera della 1^ guerra mondiale, con  la terribile canzone “O Gorizia tu sei maledetta”
sia musicalmente che contenutisticamente estranea al periodo dei fatti. In altre parole anche la Tradizione Popolare dei canti di rivolta,  comincia   a comportarsi come i tanto deprecati padroni e persuasori occulti : travisando la realtà, manipolando dati e perché no, anche musiche, per addivenire ad una  nuova rappresentazione  non re
ale, ma recitata, una “messa in scena” né più né meno di quella che non solo  il romanzo, il teatro, il cinema  e sempre più anche tutti mass media vanno apparecchiandoci come sostituto della realtà

 

martedì 7 settembre 2021

IL SUPER DI NARCISO

 

VERSO UN SUPER ES
Non è da oggi che il termine “super” viene attribuito con intenti ovviamente di esaltazione e di “superiorità” un po’ a tutto il lessico della nostra lingua parlata e scritta, ma forse ancor più immaginata o meglio da immaginarsi: così anche Freud che della parola, bhè!… è considerato un po’ uno dei grandi “guru”  (la talking cure, secondo la definizione della mitica Anna.O. la celeberrima paziente di Breuer)  quel termine “super” doveva andare ad affibbiarlo a qualche sua nuova idea o formulazione, nella fattispecie, nientemeno che al suo nuovo modello strutturale del funzionamento psichico umano, andando a denominare uno dei tre agenti specifici di tale funzionamento: l’epiteto di “super” anteposto al termine “Io” stava così a delineare la focalizzazione di una nuova funzione, che, nella precedente fase teorica quella non ancora rivoluzionata con la scoperta della “pulsione di morte” era adombrata : il Super-io. Dice lo stesso Freud:  “Apprendiamo dalle nostre analisi che vi sono persone nelle quali l’autocritica e la coscienza morale – e cioè prestazioni della psiche alle quali viene attribuito un valore grandissimo – sono inconsce, e producono, proprio in quanto tali, i loro effetti più rilevanti… La nuova esperienza, che ci costringe – a dispetto della nostra migliore consapevolezza critica – a parlare di un “senso di colpa inconscio”, è molto più imbarazzante e ci propone un nuovo enigma, specialmente se  finiamo col renderci conto che un tale senso di colpa inconscio svolge in un gran numero di nevrosi una funzione decisiva da un punto di vista economico, opponendo i più potenti ostacoli sul cammino della guarigione”  Egli dunque andava paradossalmente a ricavare la genesi del Super-Io, da una “colpa” che aveva finito per individuare nell’Edipo, ovvero la ben nota figura della tragedia greca di colui che uccise il proprio padre e ne sposò la moglie, cioè la madre.  Ora questa identificazione,  così marcata con il complesso di castrazione, che verrà oltremodo sviluppato da Lacan, ed anche con quel concetto che in Freud ha sempre costituito un assioma, ovvero che il bambino abbia uno spasmodico  desiderio di eliminare il padre e tenere la madre tutta per sé, con tanto di correlati sessuali, che appunto resterebbero individuati nell’Edipo, sono a mio parere, non solo un tantino stiracchiati, ma anche inesatti.  Nessuno sano di mente, neppure un bambino che si affaccia alla sessualità, sarebbe tanto  di cattivo gusto dal venire attratto da una donna molto più vecchia, spesso e volentieri dimessa, brutta, sciatta,  né tanto meno ciò potrebbe essere indotto da un inconscio, un Es, deputato, prima della svolta del “al di là del principio del piacere” appunto  al piacere (eros). Solo dopo quel libro che è del 1920, quando cioè Freud aveva 64 anni, si giustapporrà quello opposto di morte (thanatos), che ha delle peculiarità assolutamente non coincidenti col complesso di castrazione e comunque con l’Edipo. La verità è che nessuno, salvo casi di vera psicopatologia, e’ attratto sessualmente dalla propria madre; quello di cui  semmai si è attratti è il senso di sicurezza  che la figura materna può infondere, quel tanto strombazzato “amore incondizionato” quel proverbiale “ogni scarrafone è bello a mamma sua” che fa si che ogni individuo sia portato a perseguire un desiderio che non si rifà all’Eros, ma piuttosto a Thanatos: il desiderio di sicurezza, di quiete, di far ritorno da dove si è venuti, insomma coazione a ripetere all’insegna del 2° principio della termodinamica  e dell’entropia: la vita appunto come apparire di un qualcosa che turba un ordine costituito ovvero turbamento di uno stato di quiete  e continuo aumento di disordine, cui la madre, l’utero, rappresentano  una sorta di contro assicurazione, un mito dell’eterno ritorno. La vita è pericolosa,  traumatica, una continua incessante lotta per la sopravvivenza e l’Io reagisce con il sintomo, perché è lui nella sua stessa costituzione originaria un sintomo come giustamente osserva Lacan,  ma se potessimo tutti tornare alla quiete dell’utero, allo stato di pre-nascita ecco che non dovremmo lottare, non dovremmo faticare, non dovremmo soffrire  e non ci troveremmo mai soli, sperduti nel buio. Se potessimo trovare la madre che informa quell’amore incondizionato e quindi quel “non rischio” di vita, tutto sarebbe perfetto, assoluto, ma ecco!… anche dannatamente coincidente con quel Thanatos scoperto da Freud in “al di là del principio del piacere” perché sostanzialmente la pulsione di morte e’ in verità desiderio di non-essere, desiderio di far ritorno in quel nulla dove non esistono contrasti, un qualcosa che gli antichi avevano perfettamente inteso e rappresentato con il segno dell’Uroboros, il serpente che si morde la coda, simbolo dell’infinito; un desiderio molto ma molto più ancestrale e più potente di quello di Eros, cui semmai il principio paterno, col suo amore condizionato, legato alla prassi, all’osservanza di leggi e prescrizioni e anche alla capacità, al talento, all’accaparrarsi donne giovani e belle, cerca di perseguire. A  mio parere proprio la scoperta della pulsione di morte e della coazione a ripetere, scardina le fondamenta del contrasto tra principio di realtà e di piacere che si svolgerebbe tra Io e Es, immettendo nuovi parametri  e nuovi termini di conflitto, dove quel “super” va attribuito si all’Io che può anche rappresentare certe influenze esercitate  dall’ambiente sociale e culturale, ascritte  all’identificazione paterna, e dove, detto per inciso, l’Edipo rappresenta solo una di tali identificazioni (quella riferita al complesso di castrazione) non escludendone altre, ma può  benissimo essere adottata anche all’Es (l’inconscio) che non ha da apporre i suoi veti alla rigidità delle prescrizioni sociali, ed è invece tutto devoluto ad un qualcosa che non si rifà all’Eros e quindi al sociale, all’ambiente, ai rapporti, ma si rifà a Thanatos, cioè al nulla, a quel non-essere  nel quale se diamo per buona tutta la grande revisione del pensiero e della teoria freudiana, riposa  la più profonda essenza del desiderio.  Non c’è da sorprendersi se Freud riprende la teoria delle pulsioni che aveva affrontato in un saggio antecedente, ovviamente rivedendole nell’ottica di una opposizione radicale tra pulsioni sessuali e di morte, ma è proprio questo l’assunto che non convince, laddove  pone l’io succube sia del servaggio del super io, sia dell’Es, senza distinguere tra i due che provocherebbero impulsi qualitativamente differenziati  di natura erotica o distruttiva. E’ la strada che porterà al saggio “Inibizione sintomo e angoscia”:  dando per scontato la preminenza del conflitto tra Io e Super Io, per approdare però nel suo ultimo saggio di rilevanza meta psicologica “Analisi terminabile e interminabile”, alla inutilità di tutta la terapia, inutilità messa in evidenza non dal Super io, bensì da un Es per il quale si potrebbe benissimo adottare la dicitura di Super Es, in quanto non amputabile alla conflittualità sociale, edipica, di adattamento all’ambiente col desiderio istintuale,  bensì a quella molto ma molto più ancestrale e profonda di una pulsione di morte, che con la sua coazione a ripetere, e quindi anche ad un eterno ritorno, ritorno da dove si è venuti, cioè il nulla, comporta gioco forza la cessazione di ogni conflitto, e quindi anche alla necessità dell’analisi che di fatto è interminabile nei termini dell’aumento del disordine e della dispersione(entropia), mentre è terminabile solo nella totale e finalistica adesione alla pulsione di morte  (2° principio della termodinamica “in un sistema chiuso tutte le forze tendono allo stato di quiete”). Ecco anche perché, a parere di chi scrive questo appuntino, una figura anch’essa presa dal Mito Greco: Narciso con il suo riflettersi nella specularità della sua immagine nella superficie dell’acqua appena oltre la quale troverà proprio lei Thanatos, la Morte, ha molte, ma molte più probabilità di Edipo, di rappresentare la giustificazione stessa della seconda parte della evoluzione teorica Freudiana, quella appunto  inaugurata dal saggio 

  Al di là del principio del piacere e imperniata più sul desiderio che sulla rimozione e per la quale si parla appunto di “Seconda topica“ : Io , Es , Super Io, che però senza Super Es risulta come una sedia a cui non è ancora stata aggiunta una gamba

 

 

lunedì 6 settembre 2021

NAPULE'....LE TRE CANZONI ARCHETIPE

 


La data, non dico di inizio, ma insomma quasi, è il 1835! Ancor prima del “succede un quarantotto”, prima delle guerre d’Indipendenza, di Garibaldi, del matrimonio di Franz Joseph e Sissi, di Cavour, della Contessa di Castiglione. Per l’appunto è in quest’anno, che tradizionalmente si fa cominciare la storia della canzone napoletana, anche se qualcuno però pospone al 1839; Un inizio che ha il suggello di uno straordinario successo di una canzoncina, scritta da un certo Sacco, ma impreziosita da un’aria composta nientemeno che da Donizetti, che fa il giro di tutti gli Stati d’Italia, con epicentro però a Napoli, quella città che qualche anno dopo, sempre un’altra famosa canzonetta etichetterà come “Chisto è ‘o paese d’o sole!”. Quella Napoli, con il retaggio di antica capitale imperiale, e dove ancora moltissimi ricordavano il Maresciallo dell’Impero, Gioacchino Murat, coi suoi pennacchi, le uniformi sfavillantin con  moglie una sorella di Napoleone, famoso per la sua irruenza e le travolgenti cariche di cavalleria, che accompagnato nel suo insediamento a nuovo Re di Napoli dal segno infausto e temutissimo dalla popolazione partenopea del mancato sciogliersi del sangue di san Gennaro, aveva radunato i preti e senza tanti preamboli li aveva avvertiti che se l’indomani il sangue non si fosse sciolto, avrebbe tagliato a tutti la testa;  risultato: alla ripetizione del “miracolo” il sangue non si era limitato a sciogliersi, ma addirittura a bollire. Ma parlavamo del successo di quella canzoncina, un successo travolgente, quello che anni dopo avrebbe avuto l’epiteto di “tormentone”, ma che certo non doveva durare una sola estate….appunto quella “Te voglio bene assaje” dalla musica deliziosa di cui anche le parole, seppur non certo originali, accarezzavano il gusto, i sentimenti, che forse non hanno epoca, ed il cui seguito non proprio esaltante “e tu nun pienze a me” accentuava anche la sottesa malinconia dell’amore non corrisposto, impossibile, a volte tragico, cavallo di battaglia dell’ancora imperversante  movimento romantico, nell’anno di grazia 1835 o anche  1839. Per quanto l'origine della canzone sia tuttora oggetto di discussione, è certo che essa ebbe immediatamente un enorme successo, dato che in pochi mesi furono vendute ben 180.000 copielle, ossia gli spartiti e le parole, stampati e distribuiti su foglio. Inoltre per molte edizioni della Festa di Piedigrotta questa canzone fu intonata quasi ad inno ufficiale della musica napoletana. La risonanza della canzone fu tale che il giornalista Raffaele Tommasi, sul settimanale letterario "Omnibus" disse "Sfido chiunque dei miei lettori a dare un passo, o a ficcarsi in un luogo dove il suo orecchio non sia ferito all'acuto suono di una canzone, che da non molto da noi introdottasi, trovasi sulle bocche di tutti, ed è venuta in sì gran fama da destar l'invidia dei più valenti compositori". L'ossessionante ubiquità della melodia, cantata in tutta la città, e anche fuori Napoli, provocava come abbiamo visto articoli di giornali, commenti di ogni genere e anche a volte poesiole come quella di un nobile napoletano che diceva “Matina, juorno e sera fanno sta tiritera, che siente addò te vuote, che siente addò tu vaje I te vojo bene assaje e tu nun pienze a me”. Il fatto però che le “copielle” erano già diffusissime, fa pensare che sì “Te voglio bene assaje” fu la prima canzone di grande successo, ma che si inseriva in un contesto già ricco di storia e tradizione musicale quale quello partenopeo. Le “copielle” erano dei fogli che contenevano testi e spartiti di canzoncine particolarmente in voga che venivano vendute in negozi musicali, nelle prime case editrici musicali,  ma anche da musicisti itineranti che suonavano in varie parti della città e in special modo, chissà perché, davanti le stazioni di posta e per tale motivo furono detti “posteggiatori”; e la “posteggia”, appunto, corredata di copielle, per cui ognuno che avesse qualche rudimento di musica poteva replicare il refrain, si era andata diffondendo già ben prima del grande successo di “Te voglio bene assaje”. Dobbiamo a Guglielmo Cottrau, un francese di Strasburgo che si trasferì a Napoli al seguito di Murat e naturalizzato napoletano con il ritorno dei Borboni, il recupero di buona parte del patrimonio musicale partenopeo che risaliva addirittura a Federico II di Svevia e aveva pieces di diffusione internazionale tipo la “villanella alla napoletana” del ‘500 e la ben più famosa “tarantella seicentesca”, la “pizzica”. Questo ricchissimo patrimonio inglobava tradizioni musicali di un po’ tutto il meridione, Sicilia compresa (i Reali domini al di là del Faro), e Cottrau, che era tra l’altro stimato amico di Bellini e Donizetti, enfatizzando la composizione, magari rielaborata di antiche canzoni e ballate, tramite tali “copielle” assicurò la continuità e anche la ulteriore diffusione della tradizione musicale partenopea e meridionale; inoltre con la pubblicazione di veri e propri saggi, tipo i “Passatempi musicali “che uscirono in 6 fascicoli dal 1827 al 1847 e nel ‘41 “Les mélodies de Naples et ses environs” scritto in francese e pubblicato a Parigi, aveva dato un suggello dotto e culturale all’argomento con una diffusione internazionale. Ma lo stesso Cottrau proprio in merito alla canzone che abbiamo eletto a pretesto di questa dissertazione, una decina d’anni dopo (o sei anni, secondo l’altra interpretazione) nel dicembre 1845, esprimeva in una lettera alla madre il suo disorientamento di fronte ad un successo che evidentemente non accennava a diminuire.
Un grande, grandissimo successo dunque a monte della grande tradizione della canzone napoletana, ma anche diverse occasioni di diffusione più capillari e popolari tipo la “posteggia” e la circolazione delle “copielle”, oltre che un altro
particolare meccanismo che si cominciò a diffondere nello stesso periodo, la cosiddetta “periodica” che quasi certamente ebbe la ventura di portare a battesimo proprio lo strepitoso successo di Sacco e Donizetti. Le “periodiche” erano una sorta di riunioni settimanali, festose e spensierate che si svolgevano tra famiglie amiche, ma aperte all’occasionale partecipazione popolare che arricchiva l’atmosfera, impadronendosi delle melodie più accattivanti e contribuendo in questo modo alla diffusione per tutta la città. In seguito le “periodiche” riuscirono a trovare una vera e propria istituzionalità in feste organizzate, tipo quella famosissima di Piedigrotta, costituendo nel contempo, grazie appunto alla loro periodicità, un antecedente del Cafè-Chantant. Il luogo di queste manifestazioni era quanto mai variegato: poteva essere un salotto, una terrazza, ma più spesso e volentieri era una strada, una piazza, un cortile, dove si ballava ma soprattutto si cantava e fu esattamente là dove non pochi dei grandi artisti che contrassegnarono la grande stagione della canzone partenopea, Nicola Maldacea.
Maldacea, Narciso, Ersilia Sampieri, Elvira Donnarumma, si fecero le ossa. Alle Posteggie, alle periodiche e alle copielle, nei successivi decenni si aggiunsero per diffondere musica e canto altri espedienti: i cosiddetti “casotti”, dei rudimentali teatrini allestiti alla meglio in un basso
o in una baracca; il frequentissimo “pianino ambulante”, che forse ancora oggi è possibile vedere e ascoltare in qualche vicolo a ridosso del Pallonetto e della Pigna Secca, e che davvero portava la canzone in ogni angolo della città. Napoli dopo il passaggio al regno d’Italia nel 1861, è sempre una grande città, molto più grande delle capitali che si successero: Torino, Firenze e anche della stessa Roma, che nel 1870 non contava neppure duecentomila anime. Napoli col suo spirito allegro e canterino doveva moltiplicare i luoghi di incontro, i caffè, le osterie, le birrerie, dove le precedenti occasioni per “pazzià” si andavano sempre facendo più stanziali e meno occasionali. Dalla strada la canzone passò al piccolo palco, alla pedana, al gazebo di un caffè che di lì a poco assumerà la dicitura francesizzante di “Chantant”...o cafè sciantant!. Due anni dopo l’unità, nel 1863, c’era stato il ripetersi di uno strepitoso successo, non della proporzione di “Te voglio bene assaje”, ma insomma tale da meritare l’interessamento di un Salvatore Di Giacomo che ne registrò l’evento: “Dimme ‘na vota sì”.
Un giorno“ racconta appunto Di Giacomo “capitò nel negozio di musica di Federico Girard, Totonno Castelmezzano che mostrò ad un compositore emergente che frequentava il negozio, Carlo Scalisi, i versi di una canzone che aveva comperato per due centesimi, chiedendogli di improvvisare un motivo. In quattro e quattr'otto la canzone era composta e tutti i frequentatori del negozio applaudendo presero a cantarla in coro”; Girad molto oculatamente si assicurò subito l’esclusiva per il suo catalogo e “Dimme ‘na vota sì” quasi eguagliò il successo di “Te voglio bene assaje”. Intorno agli anni settanta dell’ottocento la Festa di Piedigrotta che era stata in verità poco più di una periodica e posteggia e che era ulteriormente decaduta con la fine del Regno Borbone, non essendo più accompagnata da parate militari e dalla presenza dei Reali, riprese vigore e divenne in breve la maggiore occasione per la presentazione delle nuove canzoni da parte delle case musicali. Fu proprio durante la Piedigrotta del 1880 che esplose il terzo strepitoso successo della canzone napoletana, quello di..............
“Funiculì, funiculà”. Ed è con questo terzo grande successo, il cui testo scritto dal giornalista Giuseppe Turco era ispirato al fatto di cronaca dell’inaugurazione della funicolare di Napoli per il Vesuvio, e la cui musica, influenzata dalla canzone popolare “lo zoccolaro”, sviluppata e arrangiata con sapiente maestria dal compositore Luigi Denza, pubblicata dalla storica Casa Editrice Musicale Ricordi, che si entra nella grande stagione della canzone napoletana, quella conosciuta in tutto il mondo con centinaia di canzoni stupende e colonna sonora di un mondo incantato, quasi magico,
fatto delle atmosfere del cafè chantant, dei teatri, dei saloni, che, come la pizza, prendono il nome della Regina Margherita, con le sue sciantose, gli artisti straordinari, le passeggiate per l’elegante Via Caracciolo, gli ufficiali in alta uniforme, i landò, le bellissime donne, ma anche le miserie dei bassi, i vicoli sudici, la miseria e la struggente malinconia di “Partono 'e bastimente pe' terre assaje luntane..”dalla canzone “Santa Lucia luntana” di E.A.Mario, il compositore di “La Canzone del Piave” che quasi a ratifica di un mondo che oramai la prima guerra mondiale aveva cancellato, scrisse nel 1919.

 

IL CAPOVOLGIMENTO DEL FUTURO ANTERIORE

il Wall Street Journal ha riportato un rapporto del governo Usa dove si afferma che "GLI STATI UNITI STANNO CAPOVOLGENDO LA STORIA, ...