mercoledì 8 settembre 2021

LA CANZONE DI RIVOLTA A TAVOLINO

La più famosa canzone di rivolta è senza dubbio l’Internazionale, che tradizionalmente  viene associata alla Unione Sovietica, di cui fu in effetti l’inno Nazionale dal 1917 al 1944  prima di essere sostituita dalla musica del Gen. Alexandrov, che è tutt’ora l’inno russo, ma in verità, anche se è in genere la canzone che i movimenti socialisti e comunisti di tutto il mondo, con quella adesione ideale e anche qualcosa in più, al Paese del cosidetto “Socialismo reale”, la sua origine è esclusivamente francese :  lo scrittore, militante socialista Eugene Pottier ne scrisse le parole, con le quali intendeva celebrare la Comune di Parigi del 1871, cui lui stesso era stato
 un entusiasta sostenitore e partecipante, ma le  parole venivano però cantate sull’aria della Marsigliese e questo ancora 15 anni dopo quando lo stesso Pottier , che era un instancabile autore di versi rivoluzionari, poco prima di morire aveva  scritto parole di  una nuova canzone  sempre per celebrare la Comune, in particolare la cosidetta “semaine sanglante”di cui lui stesso era uno dei “survivants” sopravvissuti  : 
“Elle n’est pas morte” avendovi trovato la musica di un’aria di un compositore Parizot “”t’en fais pas Niculas “ e componendone quindi un refrain trascinante con il ritornello che faceva “Tout ça n'empêche pas, Nicolas, que la Commune n'est pas morte!”

Probabilmente fu il maggior impatto di tale canzone con parole e musica  che non si rifaceva al troppo celebre e anche  al non più cosi’ rivoluzionario La Marsigliese, che indusse il compositore  Pierre De Geyter, due anni dopo, nel 1888, quando Pottier era morto da pochi mesi (nel novembre del 1887) a comporre per le parole  una musica originale che è quella che tutti conosciamo e che a ragione può definirsi come il più genuino e accreditato  inno del socialismo, al di
la’ di una singola nazione, ma come indicato dal suo stesso nome, di tutto il mondo. 
In italia l’ Internazionale divenne famosissima  ma la sua traduzione del testo fu parecchio dissimile all’originale : essa era stata oggetto di un concorso indetto dal giornale socialista l’Asino che aveva visto vincitore un certo Bergeret che probabilmente era il giornalista Ettore Marroni che usava spesso uno pseudonimo simile e anche se spesso fu oggetto di revisione, quel testo del 1901  è rimasto il più diffuso e a tutt’oggi cantato.
Non è che in quell’inizio del XX secolo, canzoni del genere  erano sulla bocca di tutti: vigevano le feroci repressioni degli Stati Nazionali, la maggior parte monarchici  e probabilmente
quelle più provocatorie e famose erano di stampo anarchico, quale ad esempio  la stupenda “Addio Lugano Bella” considerata appunto  l’inno degli anarchici, che era stato scritto da Pietro Gori, un avvocato anarchico militante, amico di Sante Caserio, l’uccisore del Presidente Francese Sidi Carnot, di cui lo stesso Gori aveva scritto appunto “la ballata di Sante Caserio” e che la stampa accusava addirittura di esserne l’ispiratore. Certo è che Gori  si era rifugiato a Lugano per sfuggire  alla polizia italiana per poi essere imprigionato e infine espulso anche da quel Paese, da cui le famose parole della canzone, il “cacciati senza colpa, gli anarchici van via. Gori scrisse parecchie altre canzoni anarchiche e comunque di protesta ma nessuna raggiunse la notorietà e anche il livello musicale di Addio Lugano bella, d’altronde anche le altre canzoni con tali ispirazioni non erano granchè conosciute nell’Italia di inizio secolo, essendo come sopraccennato, oggetto di forte censura  e repressione: ci potevano essere delle sorte di ballate, tipo quella di Caserio o che inneggiavano a Bresci l’uccisore di Umberto I, che imprecavano contro  il Generale Bava Beccaris, quello delle famose  cannonate di Milano del ‘98, ma erano cantate quasi esclusivamente da militanti politici, anachici o socialisti di tendenza esteremistica, il grosso, diciamo così, della protesta era semmai  incanalato verso  canzoni della tradizione popolare delle varie regioni del Paese, canti di lavoro, di sacrificio, di emigrazione del tipo “Maremma amara... dove l’uccello che ci va perde la penna”,   “sciur padrun da li beli braghi bianchi” che era un canto delle mondine del Vercellese, “mamma mia dammi cento lire”… che in america voglio andar” insomma canzoni non di partito, non di militanti politici, ma che solo con una certa forzatura potevano essere ascritte a ribellione o tanto meno rivoluzione Lo stesso doveva accadere durante la guerra di Libia, tra  tripudio di tricolori, sciantose che cantavano vestite da marinaretto “Tripoli bel suol d’amore” e i fasti al tramonto dei riflessi della Belle Epoque con le  sciantose del Cafè Chantant  gli  ufficiali in alta uniforme, le dame in landò:  tante canzoni, ma tutte molto lontane dal mondo dei poveri, dei diseredati e anche della protesta e della ribellione, che solo dopo la buriana della guerra troveranno una certa malinconica espressione “partono è vastimenti pe’ terre assai luntane” tra l’altro per la penna e la sensibilità di E.A.Mario l’autore de La canzone del Piave   ed altre canzoni di impronta patriottica.   Le canzoni di rivolta del periodo della prima guerra mondiale  furono incanalate su un generico antimilitarismo non politico, di cui abbiamo già trattato a proposito dei canti della tradizione popolare sopratutto di tipo montanaro e dei cosidetti "bomba c'è" sorta di stornelli cadenzati, fortemente ironici di una critica graffiante e provocatoria, ma come detto, non politica, ma incentrati sui disagi e le sperequazioni della guerra,"il nostro battaglione è un pochettino scarso, abbiam lasciato il resto sul San Michel del Carso....bom bom son tre colpi di cannon oppure il più irriverente "da Cividale a Udine ci stanno gli imboscati, portan gambali lucidi e capelli impomatati ...din don dan e al fronte non ci van" tant'è che sullo stesso refrain furono imbastiti prima le strofette degli Arditi, le celeberrime Fiamme Nere "se non ci conoscete guardateci dall'alto noi siam le Fiamme Nere dei battaglion d'assalto ...bombe e man e carezze col pugnal"  e poi dalle prime formazioni di camicie nere dei fasci di combattimento "se non ci conoscete, guardateci sul petto, noi siamo gli squadristi dal santo gagliardetto" che conservavano lo stesso ritornello. La canzone politica militante tornò nel periodo della Resistenza, ma checchè ne dica l'attuale sinistra non fu certo Bella Ciao l'inno di tale periodo anche per il fatto che Bella Ciao fu
una composizione a tavolino fatta da un gruppo di raffinati cultori della tradizione popolare Il Nuovo Canzoniere Italiano che la presento' per la prima volta  al festival di Spoleto dei Due Mondi del 1964, spacciandola per un canto originario della Resistenza. La vera unica originaria canzone  della Resistenza fu Fischia il Vento sul refrain della musica russa di Katyuscia con le parole composte da un
medico partigiano amico intimo di Italo Calvino : Felice Cascione.
Nel dopoguerra  si costituì il Gruppo dei  “Cantacronache”,  che  nella costante ricerca delle tradizione autoctone della musica popolare, compose con grande sensibilità e innegabile talento le migliori canzoni che sono andate ad ingrossare il patrimonio popolare
della musica di protesta, di cui forse il testo e musica più celebri furono quelli de "per i morti di Reggio Emilia" del 1960 di Fausto Amodei che giustappunto era stato uno dei fondatori del Gruppo. Gruppo importantissimo I Cantacronache  destinato a confluire nel citato Gruppo del Nuovo Canzoniere Italiano (1962), che però al contrario del suo  antecedente  proprio in quell’occasione del  Festival Dei Due Mondi di Spoleto  del 1964,  prese anche a   manipolare la tradizione  contando su di una maggiore esperienza e sensibilità  musicale e incanalare cosi’ anche se non in maniera veritiera  il patrimonio della tradizione di rivolta.  Lo fece per Bella Ciao  e l’epopea della Resistenza, come abbiamo accennato, ma lo fece con addirittura più scalpore e provocazione per la atmosfera della 1^ guerra mondiale, con  la terribile canzone “O Gorizia tu sei maledetta”
sia musicalmente che contenutisticamente estranea al periodo dei fatti. In altre parole anche la Tradizione Popolare dei canti di rivolta,  comincia   a comportarsi come i tanto deprecati padroni e persuasori occulti : travisando la realtà, manipolando dati e perché no, anche musiche, per addivenire ad una  nuova rappresentazione  non re
ale, ma recitata, una “messa in scena” né più né meno di quella che non solo  il romanzo, il teatro, il cinema  e sempre più anche tutti mass media vanno apparecchiandoci come sostituto della realtà

 

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