“…e mi farò soldato nel mio reggimento” la canzoncina allude al diverso tipo di arruolamento del nuovo tipo di militari, regionale e non nazionale, così come caldeggiato dalla relazione del Capitano Perrucchetti nel lontano 1872: nessun coscritto difatti avrebbe potuto dire e tanto meno cantare una cosa simile, dopo tale anno se non fosse stato inquadrato appunto nel Corpo militare degli alpini che potevano parlare del loro Distretto, del loro Reggimento fin da bambini, sapendo che proprio lì’ ci avrebbero fatto la naja; la canzone è “sul ponte di Bassano” una delle più famose e anche tra le prime canzoni degli alpini, certamente precedente a quella Grande Guerra, che segnerà come una apoteosi nella ideazione e composizione di un numero impressionante di canti e canzoni, infinitamente superiore a quello di qualsiasi altro Corpo militare italiano e forse di tutto il mondo. Canzoni che sono entrate a pieno titolo nel patrimonio di tradizioni musicali del Paese. Certo ha sempre giocato la tradizione montanara, cui ovviamente gli alpini hanno fatto riferimento fin dall’inizio, canzoni ecco come “il ponte di Bassano” che dà quell’indicazione del “mi farò soldato” si da non retrocedere la data della composizione a prima del decennio settanta dell’ottocento, canzoni che si cantavano nelle valli, per i boschi, soprattutto nelle escursione tra i monti e che erano legate alle diverse località cui quasi sempre le musiche fanno cenno, non solo Bassano e il suo celeberrimo Ponte…“quando saremo fora, fora per la Valsugana….” “la Montanara, che si sente tra boschi e valli d’or…” “quel mazzolin di fiori” che, ovviamente è ben precisato, “vien dalla montagna “. E’ una impronta che si sente anche nei canti prettamente militari, che in effetti per lo più parlano pochissimo di guerra, assalti e roba del genere, ma vi fanno semmai un sotteso e mai troppo entusiastico riferimento. Il curioso, come è stato detto, è che quasi tutto tale patrimonio si sia composto quasi integralmente durante la Grande Guerra del ‘15-18; quattro anni a stretto contatto con la morte, tra sacrifici e privazioni, debbono aver stimolato la vena poetica, ideativa e canterina dell’anonimo compositore alpino, che anche questo è da rimarcare, difficilmente si possono trovare gli autori specifici di questa o quella canzone per bellissima che sia; sembra quasi che l’atmosfera della guerra, tra l’altro molto poco compresa, specie tra le classi popolari, montanari, contadini, anche contrabbandieri, abbia cementato quel certo spirito di appartenenza ad un sostrato comune facendo emergere del tutto naturalmente e spontaneamente inusitati talenti musicali. Prima della grande guerra gli alpini non risulta che avessero questo poi sterminato parco musicale: per lo più cantavano le canzoni delle loro Valli e dei loro Monti e magari qualche musichetta ripresa dall’apparato militare nazionale, quale ad esempio l’allegra marcetta della Bella Gigogin, che risaliva a prima dei moti Risorgimentali, difficile che intonassero musiche un tantino più ufficiali, tipo “addio mia bella addio” “l’inno di Garibaldi””la bandiera di tre colori”. Durante la prima guerra d’Africa la canzone più in auge era pure una sorta di marcetta che faceva riferimento ad un “africanella Cassera” per ribadire un po’ spocchiosamete “italia resta in Africa” cosa che, causa la battaglia di Adua, cui anche gli alpini presero parte, andò alquanto diversamente. Sembra però che il canto della Grande Guerra “e Cadorna manda a dire…” avesse un precedente, proprio in tale periodo, dove invece di Cadorna ad avere “bisogno degli alpini” fosse il Generale Baldissera, il che magari può far argomentare se tale canzone risalisse proprio ai primi tempi della vicenda africana e cioè sul finire degli anni ottanta dell’ottocento, dopo le spedizioni “Di San Marzano e Orero” quando appunto Baldissera fu il massimo grado militare in Eritrea, oppure dopo Adua, sette anni dopo, quando appunto lo stesso Generale vi fece ritorno, per cercare di porre rimedio al disastro che aveva combinato Baratieri. In Libia la canzone più diffusa era senza dubbio la famosissima “Tripoli bel suol d’amore” che la cantante Gea della Garisenda intonava con tanto di tricolore, vestita da marinaretto e spesso e volentieri anche calcando il cappello di bersagliere, ma mai quello degli alpini. Certo c’erano anche canzoni tipiche della Naja, come “macchinista del diretto” che i soldati già prima della Libia cantavano, così come probabilmente altri canti del genere che hanno fanno parte dell’armamentario di quello che fu il militare di leva, dai trentasei mesi di quei primi del secolo “trentasei mesi di pastasciutta, mamma che brutta a fare il soldà” “manda i soldi caro papà, che qua mal si sta”, ai 12 mesi di prima dell’abolizione, canti, dove si parla sempre di disagi, di soprusi dei superiori e relative vendette, magari solo cantate “si scende in piazza d’armi con tutti gli ufficiali, sergenti e caporali che se li …., diciamo …“fila”…. più?.. ma ancor più, si va sulla falsa riga dei Canti Goliardici, dove imperituro e ricorrente è il tema erotico/sessuale in un’accezione scollacciata, sul triviale, diremmo oggi, esclusivamente maschilista. Non si contano i vari “figlia ti voglio dare per sposa, un Generale, un Colonnello, un capitano, financo un semplice caporale” e tutti a conclusione scontata : niente!per ognuno c’è sempre il suo correlato a palese defaillance sessuale, l’unico che avrà l’entusiasta beneplacito della fanciull sarà il congedante e sul perché, superfluo sottolineare che è sempre dominante la più marchiana coloritura sessuale: con “congedante” fa rima difatti un certo capo di abbigliamento femminile, che questi senza troppi complimenti provvederà a strappare. Con la Grande Guerra gli alpini, come abbiamo osservato, diventano gli assoluti protagonisti della canzone militare; è scontato che vanno usufruendo sempre più di un patrimonio di tradizioni regionali a carattere montano di sempre maggiore entità, canzoni che parlano di Monti, di Valli, di belle morose, ecco! Sempre di morose “Il 29 giugno” quando che si taglia il grano, già ma è anche il giorno in cui nasce una bella bambina con una rosa in mano” “la Paganella” “Dove te vet Mariettina” “all’Ospedale di Genova” “la Smortina” “ai pret le biele stele””o ce biel Chieschiel a Udin” canzoni che costituiscono la tradizione, al pari di altre specifiche militari di alpini, a cominciar dall’inno stesso del Corpo “trentatré” al celeberrimo “sul cappello che noi portiamo” quindi “mi sum alpin, me piace el vin”, e quelle dove la guerra comincia timidamente a fare capolino come “Oh Dio del cielo se fossi una rondinella …” dove allo struggimento della “morosa” lontana c’è prima l’invito a raggiungerla “prendi la secchia e vattene alla fontana, là c’è il tuo amore che alla fontana aspetta” ma subito dopo un ben ordine ben più crudo: “prendi il fucile, innesta la baionetta e vattene alla frontiera, la c’è il nemico che alla trincea ti aspetta” Probabilmente la prima canzone specifica che parla non solo di militare, ma di guerra è “Monte Nero” che racconta musicalmente appunto una delle prime imprese militari dei battaglioni Fenestrelle, Pinerolo, Susa ed Exilles del 3° reggimento alpini, battaglioni che sotto gli occhi di un Colonnello che piangeva “a veder tanto macello” conquistarono appunto la cima del monte all’alba del 16 giugno 1915. Le cose cominciano a farsi dannatamente reali, il Colonnello in questione è un personaggio reale, Donato Etna, che già aveva avuto un momento di celebrità per essere stato il comandante del battaglione Morbegno, quello in cui fu fatto l’esperimento del plotone grigio, che doveva introdurre il grigio verde in tutto l’Esercito. Donato Etna coi suoi baffoni paciosi che diverrà Generale d’Armata e che tutti sapevano essere un figlio illegittimo del Re Vittorio Emanuele II. Comunque sia, di poi è tutto un susseguirsi di canti e canzoni, sembra quasi che la dura vita di trincea, gli allarmi, gli assalti stimolino la verve musicale, come detto di tutta una miriadi di compositori “Bombardano Cortina” “Era una notte che pioveva” “Dove sei stato mio bell’alpin, ghe ti ga cambià colori” con l’alpino che si mette ad elencare tutti i motivi che gli hanno appunto fatto cambiare colori, il Pasubio, l’Ortigara, il Grappa; ancora la struggente “Ti ricordi la sera dei baci” dove una ragazza che ha perso il fidanzato ventenne in guerra si rivolge alle sue coetanee con un quanto mai melanconico invito “ragazzette che fate all’amore, non piangete, non state a soffrir, non v’è al mondo più grande dolore che vedere un alpino morir” Un’altra delle più belle è il famosissimo “Testamento del Capitano” che non è però un canto spontaneo e del tutto improvvisato: ha difatti un antecedente nel Canto Funebre del Marchese di Saluzzo, un condottiero cinquecentesco di cui Costantino Nigra ne aveva riportato una versione in piemontese arcaico, che appunto ne narrava la suggestiva morte, dove prima di spirare aveva voluto radunare tutti i suoi uomini e giustappunto fare un originale testamento., con parti del suo corpo Si !!! Il testamento del Capitano è probabilmente la più bella canzone degli alpini ed ognuno, magari ci ha costruito una storia personale : mio nonno Mario Nardulli che militava nel 1916 nel battaglione Monte Suello ai diretti ordini del Capitano Corrado Venini che, gravemente ferito in battaglia, doveva morire dopo ore di agonia tra il Monte Maggio e il Colle della Borcola, nei primi giorni della Straf Expedition austriaca, diceva sempre che per lui il quel Capitano era proprio il Capitano Venini! Stessa vicenda, stessa storia e non è affatto improbabile, magari con un piccolo aiutino della fantasia, che tale Capitano, che ebbe la medaglia d’oro alla memoria e che era un appassionato di musica e si dilettava di composizione di canzoni (aveva composto l’inno degli alpini sciatori) abbia in effetti aumentato un po’ di suggestione della scena, facendo riferimento a quell’antico episodio “ e io comando che il mio corpo in cinque pezzi avete a’ taglià!” Un’altra canzone della Grande Guerra che non può e non deve essere tralasciata è “Di qua di là del Piave” …qualcuno però forse in una versione un po’ precedente la chiama più genericamente “di qua di là del Ponte”. La vicenda è ultra famosa e informa quell’immaginario tipicamente alpino, del poppante che butta il latte e beve il vino, questo in virtù del fatto di essere figlio “del vecio alpin” e della bella mora che stazionava appunto “di qua, di la’ del Piave o di un qualsiasi ponte” laddove, la storiella che fa svolgere il tutto, dismette alquanto l’armamentario guerriero e battagliero, per assumere quello di un vicenda anche un tantino boccaccesca (dipende anche dalle varie versioni - ci hanno fatto pure un film nel secondo dopoguerra ), dove sulla prime la fanciulla quando il vecio le fa a bruciapelo “ ohi bella! vuoi venire questa sera a far l’amore con me?” fa un po’ di storie “mi si che vegneria per una volta sola, però ti prego lasciami stare che son figlia da maritar”…e quello proprio senza un minimo di tatto…. (eh la guerra! Che fine avevano fatto le buone maniere?) : “se sei da maritare dovevi dirlo prima, ma molto prima, sei sempre stata coi veci, alpin, non sei figlia da maritar!” Punto e basta! Andiamo comunque a precisarla un tantino questa bella mora del Ponte, futura madre del bambino che “buttava il latte, beveva il vino!”: tramite lei si contraddice una delle due versioni del titolo della canzone e proprio quella più conosciuta ovvero “di qua di là del Piave” perchè la ragazza lo si ribadisce chiaramente, anzi lo si canta proprio in una strofa, è a ridosso del Ponte di Bassano, e quindi sul Brenta, non sul Piave : “sul ponte di Bassano ci sta una bella mora, tutte le sere che la va fora, cogli alpini la fa l’amor”
sembra una modalità di coniugazione spazio/temporale laddove ci si muove tra futuro anteriore e calcolo infinitesimale ove limiti, derivate e integrali sono proiezioni di numeri negativi (ovvero numeri immaginari)
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